02-01-2004
«Vivo il calcio a modo mio, senza vincoli con i procuratori: non ne ho mai avuti»
Cappellacci, uno spirito libero in panchina
Il tecnico di Tortoreto si racconta sfogliando l’album della carriera 18 anni da calciatore e due da allenatore
TORTORETO. Roberto Cappellacci ama definirsi uno spirito libero in panchina. Un allenatore lo era già da giocatore, centrocampista d’ordine di grande sagacia tattica. Una carriera soddisfacente chiusa per intraprenderne un’altra più difficile. Ma sempre a modo suo, forse in maniera anticonformista, di certo senza vincoli. Ha preso il timone di una Rosetana alla deriva: finora tre sconfitte e un pareggio. Nonostante il ruolino di marcia deludente, va avanti per la sua strada. Cappellacci da giocatore era poco loquace, ancora di meno lo è da allenatore. Scucirgli un’intervista non è stata un’impresa, ma quasi. «Di chiacchiere nel calcio ce ne sono già tante, perché aggiungere anche le mie?», la premessa di un faccia a faccia privo di fronzoli. Cappellacci, perché quando è arrivato a Roseto ha detto: “Non giudicatemi dalle apparenze”? «Qualcuno valuta anomalo il mio look e quindi mi dispiacerebbe che mi si giudicasse solo per l’apparenza e non per il lavoro che svolgo». Lei ha appeso le scarpe al chiodo a 36 anni, con la maglia del Giulianova. Poi ha subito trovato panchina ad Andria, l’anno scorso, dove ufficialmente era l’allenatore in seconda. «A dire la verità, mi hanno chiesto di smettere per poter fare l’allenatore. Volendo avrei potuto continuare, ma è stato l’ingegner Fuzio, patron dell’Andria, a chiedermi di lasciar perdere per iniziare la carriera in panchina». Subito tra i professionisti, senza fare la gavetta. «Sotto questo punto di vista mi ritengo fortunato. Tanto più perché non sono mai stato legato al carro dei procuratori». Mai avuto un procuratore? «Uno solo, giusto il tempo per capire che dovevo toglierlo subito». 18 anni da professionista senza procuratore: come si fa nel calcio d’oggi? «Devi essere bravo, tutto viene di conseguenza». «Questo suo spirito libero da dove nasce? «Non mi piace dipendere da nessuno. Ragiono con la mia testa e difendo le mie idee». Lei ha iniziato la carriera da calciatore a Teramo e l’ha finita a Giulianova: quali sono le differenze tra le due piazze? «E’ difficile stabilirlo, perché le esperienze sono state diverse. A Teramo ho iniziato a giocare. Venivo dalla Seconda categoria, dal Tortoreto Alto, avevo 18 anni. Ho avuto la fortuna di trovare un ambiente bellissimo. Il ricordo è ottimo». A Giulianova invece? «Ho vissuto male questa esperienza, ho fatto fatica a inserirmi nello spogliatoio. Ho avuto problemi. Pur di tornare in Abruzzo, ho rinunciato a dei soldi. C’erano tante aspettative. E, invece, i primi sei mesi non rendevo, ero ridicolo. Andai da Quartiglia per rescindere il contratto, ma poi arrivò Buffoni che mi volle trattenere. Ma c’era uno spogliatoio poco unito. E la società ne ha pagato le conseguenze. Grossi investimenti, grossi nomi per la categoria e in due anni sono arrivate una salvezza e una mancata qualificazione ai play off». Com’è andata con i tifosi? «Ho avuto più problemi con i compagni che con loro. Addirittura, dopo i primi sei mesi che mi sarei fischiato da solo, mi hanno anche apprezzato». Cappellacci allenatore a chi si ispira? «A me piacerebbe avere le capacità di sdrammatizzare e di tenere unito lo spogliatoio che hanno fatto grande Rumignani. Ma è praticamente impossibile, perché lui è un fuoriclasse. Ma ho avuto tanti allenatori e in ognuno di loro ho cercato di capire pregi e difetti». Salvare la Rosetana a che cosa equivale per lei? «Non lo so, ma sarà possibile solo attraverso un ritrovato feeling tra la società e la squadra». Il calcio per Cappellacci cosa rappresenta? «Il modo con il quale sono arrivato a 37 anni con una certa posizione e divertendomi». Si sente ancora giocatore? «Macché, sono un allenatore a tutti gli effetti. Da parecchio tempo non ragiono più da giocatore». Qual è la differenza? «Se ragioni da giocatore pensi solo a te stesso, ad allenarti e a rendere al meglio. Se ragioni da allenatore, ti preoccupi di tutti e di tutto. Anche di quelle componenti che ruotano attorno al campo». In 18 anni di carriera da calciatore qual è stata la soddisfazione più bella? «Aver ripreso a giocare dopo 18 mesi di inattività per un grave infortunio. Era la stagione 1995-96, ero ad Andria. La squadra retrocesse dalla B alla C1, ma la stagione successiva vincemmo il campionato di C1». Lei a Tortoreto ha aperto un ristorante chiamato “Mo Bast”, perché? «Sono parole senza senso per non dare un nome normale al locale». A chi vorrebbe dire “Mo Bast” nel mondo del calcio? «Nel mio piccolo, a tutti coloro i quali fanno calcio fidandosi di ladri e ruffiani. Più in generale, a tutti quelli che esasperano il movimento. Basterebbe mettere da parte un po’ di interessi economici per riscoprire il gusto di un calcio libero e genuino». A chi vorrebbe augurare un buon 2004? «Alle squadre abruzzesi». Qual è il suo sogno nel cassetto? «Quest’anno la salvezza della Rosetana; più in là di vedere il Tortoreto nei professionisti». Qual è il presidente a cui si sente più legato? «Sono due. Uno è Ercole De Berardis che era presidente del Teramo ai tempi in cui ho giocato in biancorosso. Era l’estate del 1985 e io dopo il mio primo campionato di C2 andai ad aiutare mia madre per guadagnarmi qualche soldo. Lui lo venne a sapere e mi fece chiamare: mi diede 300.000 lire, allora erano bei soldi, e mi chiese di riposarmi». E l’altro? «L’ingegner Giuseppe Fuzio dell’Andria. Sono stato sette anni con lui. Lui pensa che diventerò un allenatore a grandi livelli».
http://www.tortoreto.org/home/news/2004/cro/01.htm