VERITA' PER DENIS!
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Re: VERITA' PER DENIS!
Ieri è stato trattato il caso bergamini su Chi l'ha visto?Le storie
No all'archiviazione, le indagini devono continuare verità per Denis!
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Re: VERITA' PER DENIS!
PER IL CASO DELLA MORTE DELL'EX CENTROCAMPISTA DEL COSENZA, DA CASTROVILLARI È STATA RICHIESTA L'ARCHIVIAZIONE. ORA IL GIP DEVE RISPONDERE: IN ESCLUSIVA A FANTAGAZZETTA, PARLANO IL LEGALE DELLA FAMIGLIA E LA SORELLA DEL CALCIATORE
Caso Bergamini, avv. Anselmo: "Faremo comunque accertamenti"
di Alfredo De Vuono
Per definizione, oltre che tradizione, le partite durano 90 minuti. Quasi tutte, ovviamente. Perché quando la partita è particolarmente importante, oltre che decisiva, come succede nelle Coppe, una sola non basta: e si ricorre, quindi, al duplice, fratricida, scontro di andata e ritorno. Anche a quel punto, però, può non esserci un migliore: ecco perché in alcuni casi le partite possono durarne anche 120, se non addirittura di più, se si considera il fatto che, al termine dei supplementari, l'unico modo per decidere il vincitore è affidarcisi alla tremebonda lotteria dei rigori. Al termine dell'andirivieni dal dischetto, poi, non esistono superstiti: i vincitori proseguono dritti per loro strada, che potrà portarli, o meno, alla gloria. Gli sconfitti, invece, tornano a casa, annientati dal tormento ansiogeno di chi sa di non aver dato tutto quello che poteva o - nel migliore dei casi - stremati, ma soddisfatti. Sazi e orgogliosi, consapevoli di aver messo sul campo, quale esso sia, tutti i propri sforzi, sino all'ultima goccia di sudore ed all'esaurimento delle proprie energie.
Bene: col caso Denis Bergamini siamo arrivati esattamente a questo punto, e con questa, particolare, e gratificante sensazione addosso. Quella di aver fatto il fattibile, detto il dicibile, tentato il tentabile. Esausti, indefessi, quasi provati. Ed ansiogeni, perchè attesi ormai solo dal triplice fischio d'un arbitro che veste panni ed oneri del Gip di Castrovillari. Che però, a conti fatti, sta già per portare il fischietto alla bocca: il problema è che la famiglia Bergamini, l'Associazione che la sostiene da anni, i tifosi del Cosenza e tutti coloro che ricercano nel calcio, oltre che passione, emozioni e relax, anche dei dovuti atti di giustizia, sono sotto di un gol. Poi, se fischio finale sarà, e senza l'ennesimo contro-ribaltone, significherà che l'opposizione alla richiesta di archiviazione della Procura - dopo la riapertura del caso nel 2011, e con due indagati (concorso in omicidio e falsa testimonianza) sotto la lente d'ingrandimento - è stata rispedita al mittente. E sancita così la fine d'una partita assai più lunga, oltre che importante, di tutte le altre. Perché dura da oltre un quarto di secolo.
Decifrare i ruoli delle contendenti è impresa ardua. Talmente ardua da aver smosso, oltre che le forse dell'ordine, i reparti investigativi e le stanze dei tribunali, anche e soprattutto due intere generazioni. Le loro coscienze collettive; le loro riflessioni che diventano leggende, indiscrezioni, piste su cui lavorare; la loro prossimità emotiva ad una famiglia che s'è vista strappare un figlio, un fratello ed uno zio a soli 27 anni. Quel che è certo è che in campo, con la maglia dell'arbitro, dovrebbe esserci la giustizia. Che però ha i suoi tempi, i suoi modi, ed i suoi limiti: e proprio come accade nel calcio che raccontiamo quotidianamente su queste pagine, non sempre può, o riesce, a tramutarsi in verità. Eppure queste due parole continuano a campeggiare, unite per assurdo a doppio filo dal sangue, dinanzi a un tribunale: quello di Castrovillari, da cui è attesa la sentenza. A circa un'ora di macchina da dove il Denis Bergamini calciatore, che qui era diventato idolo della tifoseria e progetto di campione da esportare in Serie A a fare da guardiaspalle ad un certo Roberto Baggio, abitava. E ad un centinaio di chilometri da dove, il 18 novembre 1989, trovò la morte in circostanze tanto misteriose quanto incomprensibili, considerato che il ragazzo venne dato per suicida.
Non ci crede nessuno a Cosenza. Non ci si credeva 25 anni fa, quando una telefonata avvertiva in ritiro i suoi sbigottiti compagni ed i dirigenti rossoblu. Non ci ha mai creduto la famiglia, che attraversò mezza Italia per vedersi recapitare solo un mucchio di confuse indicazioni di massima a motivazione della morte. Non ci credeva nessuno nel 2009, quando in maniera assolutamente spontanea centinaia di persone si ritrovarono in piazza, al fianco dell'instancabile sorella Donata, per urlare con rabbia la propria fisiologica fame di verità. E non ci crede nessuno neanche oggi, a oltre 190 giorni dalla richiesta di archiviazione d'un caso che solo il lavoro instancabile dell'avvocato Gallerani era riuscito a riaprire, ormai anni fa. Per capire cosa stia succedendo, e perché i tempi si siano così ulteriormente dilatati, abbiamo chiesto nuovamente lumi all'avvocato Fabio Anselmo del foro di Ferrara, da ormai qualche mese al fianco della famiglia Bergamini alla ricerca d'una verità che 26 anni di oblio rischiano di disperdere per sempre.
L'avvocato è uno che, nelle partite d'altissimo tenore e nei casi disperati, dà il meglio di sé. Prima di Donato Bergamini, in uno sconfinato elenco che pare esser fatto di sole finali di Champions League, ha seguito i casi Davide Bifolco, Giuseppe Uva, Riccardo Rasman, Riccardo Magherini (figlio di Guido, mezzala del Milan degli anni '70, ed a sua volta ex calciatore: con la Fiorentina vinse il Viareggio '92), Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi. E adesso, Denis Bergamini.
Avvocato, il tempo passa e non ci giungono novità dalla Procura. Lei negli scorsi giorni ha parlato anche di riesumazione e Tac tridimensionale.
"Certo, e l'effettuazione di indagini di carattere istologico che attraverso dei marker - tecnologie utilizzate, ad esempio, dalla Sapienza di Roma - possono determinare con precisione il momento della morte, rispetto a quello che sappiamo delle lesioni. Questo sarebbe ovviamente un aspetto decisivo per lo sviluppo delle indagini".
L'eventuale accettazione di questi esami cosa comporterebbe?
"L'approfondimento istruttorio ovviamente significherebbe rigetto della richiesta di archiviazione. Siamo al 2 settembre, ormai: a febbraio abbiamo discusso in udienza la posizione d'archiviazione, e sono passati tanti mesi di riserva. Ora diventa tutto quasi surreale".
Le sue sensazioni oggi quali sono? Il fatto che si sia preso così tanto tempo, il GIP, che significa?
"Più che altro le considerazioni sono legate alla tempistica: superati i 7 mesi, la cosa diventa inevitabilmente molto sbiadita, nonostante siano state fatte memorie scritte. Il senso diffuso, questo possiamo dirlo, è di frustrazione. Ci stiamo ormai avvicinando ai 9 mesi della gestazione d'un parto, d'altra parte. Ora aspettiamo di capire che sorte avrà questo procedimento".
Le rifaccio la stessa domanda che le feci qualche tempo. Siamo a ridosso, lo dicevo prima, del triplice fischio d'una partita lunghissima. Forse la più lunga della storia del calcio. La domanda è: se l'arbitro inevitabilmente è la giustizia, e da una parte c'è Lei, la famiglia Bergamini, l'associazione e i tifosi, dopo così tanto tempo Lei ha capito chi c'è dall'altra parte?
"Purtroppo no. Abbiamo un processo d'indagine che rappresenta evidentemente un atto d'accusa importante rispetto a fatti ed episodi, e soprattutto rispetto a determinate ricostruzioni, come il suicidio. E siamo qui ancora a raccontarci le stesse cose: una riserva così lunga non ce l'aspettavamo. Speriamo che per noi porti notizie positive e che il provvedimento di scioglimento della riserva rispetti le nostre aspettative".
Lei e la famiglia, dopo quasi 26 anni, avrete contemplato la possibilità che si arrivi all'archiviazione. A quel punto, cosa potrebbe accadere?
"Quegli accertamenti tecnici, con l'aiuto di tutti - visto il costo - speriamo di poterli fare comunque. Anche in caso di archiviazione. L'intendimento è quello di farli in ogni caso: in caso di archiviazione non possono negarci l'accesso a quei reperti istologici, né la possibilità di effettuare quegli accertamenti scientifici che, a quel punto, faremo noi. La famiglia intende fare comunque tutto ciò che è necessario per poter sapere, e dimostrare, se così è, che Denis Bergamini, al momento in cui era coricato - come dicono i medici legali - sull'asfalto, era vivo o era già morto".
La verità a prescindere.
"Si, perché non accettiamo il suicidio. E non perché respingiamo l'ipotesi dolorosa, ma perché non è vera. Anzi: suona quasi grottesca, alla luce di quel che sappiamo sotto il profilo tecnico e scientifico e che ha prodotto chi ha lavorato per la Procura".
Ultima ipotesi: il GIP archivia, la famiglia chiede ed ottiene la riesumazione e gli accertamenti, e questi danno gli esiti che in molti sospettano. A quel punto è possibile iniziare un nuovo percorso legale, per questa tragica storia?
"Tecnicamente non è inibito, perché un decreto di archiviazione non è suscettibile di passare in giudicato. Come è stato riaperto una volta, può essere riaperto un'altra. Ma facciamo un passo alla volta: di sicuro la famiglia non molla".
E non molla di certo neanche la famiglia, 'capitanata', in questa partita infinita e caotica, dalla sorella coraggio di Denis, Donata, presidentessa dell'associazione 'Verità per Denis' ed ancora oggi, dopo oltre un quarto di secolo, in attesa di ciò che le spetta: la giustizia. Abbiamo nuovamente chiesto anche a lei le sue impressioni.
Un'attesa snervante, che sembra non finire mai, Donata.
"Sono 192 giorni ad oggi, che stiamo aspettando. E' comprensibile, data la complessità della cosa e le ferie, ma l'ansia continua a crescere per una famiglia che aspetta la verità. Mi auguro però che questa attesa sia giunta finalmente al termine. C'è una verità che è nascosta e che deve venire a galla: io non mi fermo, a maggior ragione viste le cose che sono venute a galla ultimamente. Mi chiedo come possa fermarmi, dopo che determinati accertamenti hanno avvalorato la tesi che noi familiari sosteniamo dal 1989. Mi chiedo come possa la giustizia accettare una cosa così. E se così fosse, significherebbe che in questo Paese non c'è giustizia".
Verità a prescindere, dicevamo con l'avvocato: la riesumazione si farà comunque.
"Non mi fermo. Farò qualsiasi cosa. Sono anche disponibile a capire che "forse" tutta la verità non verrà mai fuori, ma quel che deve venir fuori è che Denis non si è suicidato. Come sorella non accetto che, nonostante tutto quel che è venuto a galla, i testimoni non dicano nulla. Visto che ci sono i testimoni, ed abbiamo la fortuna di averli in un caso tragico come quello d'una morte, per quale motivo non si debbano ricongiungere le loro dichiarazioni con ciò che hanno dimostrato i periti e i RIS? La distanza è enorme, e si viaggia su strade completamente diverse: è surreale".
Quello che invece è certo, è che di Donato Bergamini non si dimentica mai nessuno.
"Nel 2009, alla prima manifestazione organizzata dall'Associazione Verità per Denis, un giovane tifoso mi avvicinò, e mi disse che voleva regalarmi una maglietta che Denis, da calciatore, gli aveva regalato, anni fa. Un ricordo per lui importantissimo, che portava sempre con sé e gli dava tanta vita. Me la offrì, dicendo che era disposto a privarsene. Io gli dissi che doveva continuare a tenerla, perché l'avrebbe aiutato nel corso della vita. Quest'anno questo ragazzo se n'è andato, e mi è stato proposto di mettere all'asta la maglietta: dopo essermi sentita con la sua famiglia, abbiamo deciso di lasciarla alla famiglia. Sarà di proprietà dei due papà: il suo e quello di Denis, che hanno entrambi perso un figlio".
La prossimità, non solo emozionale, si rivede poi anche in campo.
"Per quanto riguarda il ricordo di Denis, tutto prosegue come sempre: ci sono continue manifestazioni calcistiche che portano avanti i valori sani dello sport. Si è ormai creata una stupenda sinergia tra società sportive, che coinvolgono centinaia e centinaia di giovani. Nei tornei in memoria di Denis solo in Emilia Romagna ogni anno muoviamo circa 400 giovani. E poi c'è stato il torneo estivo organizzato in Calabria dalla Scuola Calcio Denis Bergamini, le stupende coreografie, i tifosi, sempre presenti e attenti a questa vicenda come anche la società civile. Manca solo la giustizia".
Tra pochi giorni sarà il compleanno di Denis.
"Non siamo ancora al 18 di settembre, giorno in cui avrebbe compiuto 53 anni. Sarebbe bello sapere qualcosa, entro quel giorno. Ad oggi ciò che sappiamo è che solo quando l'asfalto diventerà un mare anche i morti si potranno tuffare".
E intanto, come diceva la stessa Donata due mesi fa, il tempo se ne va.
http://www.fantagazzetta.com/esclusive- ... nti-209195
Caso Bergamini, avv. Anselmo: "Faremo comunque accertamenti"
di Alfredo De Vuono
Per definizione, oltre che tradizione, le partite durano 90 minuti. Quasi tutte, ovviamente. Perché quando la partita è particolarmente importante, oltre che decisiva, come succede nelle Coppe, una sola non basta: e si ricorre, quindi, al duplice, fratricida, scontro di andata e ritorno. Anche a quel punto, però, può non esserci un migliore: ecco perché in alcuni casi le partite possono durarne anche 120, se non addirittura di più, se si considera il fatto che, al termine dei supplementari, l'unico modo per decidere il vincitore è affidarcisi alla tremebonda lotteria dei rigori. Al termine dell'andirivieni dal dischetto, poi, non esistono superstiti: i vincitori proseguono dritti per loro strada, che potrà portarli, o meno, alla gloria. Gli sconfitti, invece, tornano a casa, annientati dal tormento ansiogeno di chi sa di non aver dato tutto quello che poteva o - nel migliore dei casi - stremati, ma soddisfatti. Sazi e orgogliosi, consapevoli di aver messo sul campo, quale esso sia, tutti i propri sforzi, sino all'ultima goccia di sudore ed all'esaurimento delle proprie energie.
Bene: col caso Denis Bergamini siamo arrivati esattamente a questo punto, e con questa, particolare, e gratificante sensazione addosso. Quella di aver fatto il fattibile, detto il dicibile, tentato il tentabile. Esausti, indefessi, quasi provati. Ed ansiogeni, perchè attesi ormai solo dal triplice fischio d'un arbitro che veste panni ed oneri del Gip di Castrovillari. Che però, a conti fatti, sta già per portare il fischietto alla bocca: il problema è che la famiglia Bergamini, l'Associazione che la sostiene da anni, i tifosi del Cosenza e tutti coloro che ricercano nel calcio, oltre che passione, emozioni e relax, anche dei dovuti atti di giustizia, sono sotto di un gol. Poi, se fischio finale sarà, e senza l'ennesimo contro-ribaltone, significherà che l'opposizione alla richiesta di archiviazione della Procura - dopo la riapertura del caso nel 2011, e con due indagati (concorso in omicidio e falsa testimonianza) sotto la lente d'ingrandimento - è stata rispedita al mittente. E sancita così la fine d'una partita assai più lunga, oltre che importante, di tutte le altre. Perché dura da oltre un quarto di secolo.
Decifrare i ruoli delle contendenti è impresa ardua. Talmente ardua da aver smosso, oltre che le forse dell'ordine, i reparti investigativi e le stanze dei tribunali, anche e soprattutto due intere generazioni. Le loro coscienze collettive; le loro riflessioni che diventano leggende, indiscrezioni, piste su cui lavorare; la loro prossimità emotiva ad una famiglia che s'è vista strappare un figlio, un fratello ed uno zio a soli 27 anni. Quel che è certo è che in campo, con la maglia dell'arbitro, dovrebbe esserci la giustizia. Che però ha i suoi tempi, i suoi modi, ed i suoi limiti: e proprio come accade nel calcio che raccontiamo quotidianamente su queste pagine, non sempre può, o riesce, a tramutarsi in verità. Eppure queste due parole continuano a campeggiare, unite per assurdo a doppio filo dal sangue, dinanzi a un tribunale: quello di Castrovillari, da cui è attesa la sentenza. A circa un'ora di macchina da dove il Denis Bergamini calciatore, che qui era diventato idolo della tifoseria e progetto di campione da esportare in Serie A a fare da guardiaspalle ad un certo Roberto Baggio, abitava. E ad un centinaio di chilometri da dove, il 18 novembre 1989, trovò la morte in circostanze tanto misteriose quanto incomprensibili, considerato che il ragazzo venne dato per suicida.
Non ci crede nessuno a Cosenza. Non ci si credeva 25 anni fa, quando una telefonata avvertiva in ritiro i suoi sbigottiti compagni ed i dirigenti rossoblu. Non ci ha mai creduto la famiglia, che attraversò mezza Italia per vedersi recapitare solo un mucchio di confuse indicazioni di massima a motivazione della morte. Non ci credeva nessuno nel 2009, quando in maniera assolutamente spontanea centinaia di persone si ritrovarono in piazza, al fianco dell'instancabile sorella Donata, per urlare con rabbia la propria fisiologica fame di verità. E non ci crede nessuno neanche oggi, a oltre 190 giorni dalla richiesta di archiviazione d'un caso che solo il lavoro instancabile dell'avvocato Gallerani era riuscito a riaprire, ormai anni fa. Per capire cosa stia succedendo, e perché i tempi si siano così ulteriormente dilatati, abbiamo chiesto nuovamente lumi all'avvocato Fabio Anselmo del foro di Ferrara, da ormai qualche mese al fianco della famiglia Bergamini alla ricerca d'una verità che 26 anni di oblio rischiano di disperdere per sempre.
L'avvocato è uno che, nelle partite d'altissimo tenore e nei casi disperati, dà il meglio di sé. Prima di Donato Bergamini, in uno sconfinato elenco che pare esser fatto di sole finali di Champions League, ha seguito i casi Davide Bifolco, Giuseppe Uva, Riccardo Rasman, Riccardo Magherini (figlio di Guido, mezzala del Milan degli anni '70, ed a sua volta ex calciatore: con la Fiorentina vinse il Viareggio '92), Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi. E adesso, Denis Bergamini.
Avvocato, il tempo passa e non ci giungono novità dalla Procura. Lei negli scorsi giorni ha parlato anche di riesumazione e Tac tridimensionale.
"Certo, e l'effettuazione di indagini di carattere istologico che attraverso dei marker - tecnologie utilizzate, ad esempio, dalla Sapienza di Roma - possono determinare con precisione il momento della morte, rispetto a quello che sappiamo delle lesioni. Questo sarebbe ovviamente un aspetto decisivo per lo sviluppo delle indagini".
L'eventuale accettazione di questi esami cosa comporterebbe?
"L'approfondimento istruttorio ovviamente significherebbe rigetto della richiesta di archiviazione. Siamo al 2 settembre, ormai: a febbraio abbiamo discusso in udienza la posizione d'archiviazione, e sono passati tanti mesi di riserva. Ora diventa tutto quasi surreale".
Le sue sensazioni oggi quali sono? Il fatto che si sia preso così tanto tempo, il GIP, che significa?
"Più che altro le considerazioni sono legate alla tempistica: superati i 7 mesi, la cosa diventa inevitabilmente molto sbiadita, nonostante siano state fatte memorie scritte. Il senso diffuso, questo possiamo dirlo, è di frustrazione. Ci stiamo ormai avvicinando ai 9 mesi della gestazione d'un parto, d'altra parte. Ora aspettiamo di capire che sorte avrà questo procedimento".
Le rifaccio la stessa domanda che le feci qualche tempo. Siamo a ridosso, lo dicevo prima, del triplice fischio d'una partita lunghissima. Forse la più lunga della storia del calcio. La domanda è: se l'arbitro inevitabilmente è la giustizia, e da una parte c'è Lei, la famiglia Bergamini, l'associazione e i tifosi, dopo così tanto tempo Lei ha capito chi c'è dall'altra parte?
"Purtroppo no. Abbiamo un processo d'indagine che rappresenta evidentemente un atto d'accusa importante rispetto a fatti ed episodi, e soprattutto rispetto a determinate ricostruzioni, come il suicidio. E siamo qui ancora a raccontarci le stesse cose: una riserva così lunga non ce l'aspettavamo. Speriamo che per noi porti notizie positive e che il provvedimento di scioglimento della riserva rispetti le nostre aspettative".
Lei e la famiglia, dopo quasi 26 anni, avrete contemplato la possibilità che si arrivi all'archiviazione. A quel punto, cosa potrebbe accadere?
"Quegli accertamenti tecnici, con l'aiuto di tutti - visto il costo - speriamo di poterli fare comunque. Anche in caso di archiviazione. L'intendimento è quello di farli in ogni caso: in caso di archiviazione non possono negarci l'accesso a quei reperti istologici, né la possibilità di effettuare quegli accertamenti scientifici che, a quel punto, faremo noi. La famiglia intende fare comunque tutto ciò che è necessario per poter sapere, e dimostrare, se così è, che Denis Bergamini, al momento in cui era coricato - come dicono i medici legali - sull'asfalto, era vivo o era già morto".
La verità a prescindere.
"Si, perché non accettiamo il suicidio. E non perché respingiamo l'ipotesi dolorosa, ma perché non è vera. Anzi: suona quasi grottesca, alla luce di quel che sappiamo sotto il profilo tecnico e scientifico e che ha prodotto chi ha lavorato per la Procura".
Ultima ipotesi: il GIP archivia, la famiglia chiede ed ottiene la riesumazione e gli accertamenti, e questi danno gli esiti che in molti sospettano. A quel punto è possibile iniziare un nuovo percorso legale, per questa tragica storia?
"Tecnicamente non è inibito, perché un decreto di archiviazione non è suscettibile di passare in giudicato. Come è stato riaperto una volta, può essere riaperto un'altra. Ma facciamo un passo alla volta: di sicuro la famiglia non molla".
E non molla di certo neanche la famiglia, 'capitanata', in questa partita infinita e caotica, dalla sorella coraggio di Denis, Donata, presidentessa dell'associazione 'Verità per Denis' ed ancora oggi, dopo oltre un quarto di secolo, in attesa di ciò che le spetta: la giustizia. Abbiamo nuovamente chiesto anche a lei le sue impressioni.
Un'attesa snervante, che sembra non finire mai, Donata.
"Sono 192 giorni ad oggi, che stiamo aspettando. E' comprensibile, data la complessità della cosa e le ferie, ma l'ansia continua a crescere per una famiglia che aspetta la verità. Mi auguro però che questa attesa sia giunta finalmente al termine. C'è una verità che è nascosta e che deve venire a galla: io non mi fermo, a maggior ragione viste le cose che sono venute a galla ultimamente. Mi chiedo come possa fermarmi, dopo che determinati accertamenti hanno avvalorato la tesi che noi familiari sosteniamo dal 1989. Mi chiedo come possa la giustizia accettare una cosa così. E se così fosse, significherebbe che in questo Paese non c'è giustizia".
Verità a prescindere, dicevamo con l'avvocato: la riesumazione si farà comunque.
"Non mi fermo. Farò qualsiasi cosa. Sono anche disponibile a capire che "forse" tutta la verità non verrà mai fuori, ma quel che deve venir fuori è che Denis non si è suicidato. Come sorella non accetto che, nonostante tutto quel che è venuto a galla, i testimoni non dicano nulla. Visto che ci sono i testimoni, ed abbiamo la fortuna di averli in un caso tragico come quello d'una morte, per quale motivo non si debbano ricongiungere le loro dichiarazioni con ciò che hanno dimostrato i periti e i RIS? La distanza è enorme, e si viaggia su strade completamente diverse: è surreale".
Quello che invece è certo, è che di Donato Bergamini non si dimentica mai nessuno.
"Nel 2009, alla prima manifestazione organizzata dall'Associazione Verità per Denis, un giovane tifoso mi avvicinò, e mi disse che voleva regalarmi una maglietta che Denis, da calciatore, gli aveva regalato, anni fa. Un ricordo per lui importantissimo, che portava sempre con sé e gli dava tanta vita. Me la offrì, dicendo che era disposto a privarsene. Io gli dissi che doveva continuare a tenerla, perché l'avrebbe aiutato nel corso della vita. Quest'anno questo ragazzo se n'è andato, e mi è stato proposto di mettere all'asta la maglietta: dopo essermi sentita con la sua famiglia, abbiamo deciso di lasciarla alla famiglia. Sarà di proprietà dei due papà: il suo e quello di Denis, che hanno entrambi perso un figlio".
La prossimità, non solo emozionale, si rivede poi anche in campo.
"Per quanto riguarda il ricordo di Denis, tutto prosegue come sempre: ci sono continue manifestazioni calcistiche che portano avanti i valori sani dello sport. Si è ormai creata una stupenda sinergia tra società sportive, che coinvolgono centinaia e centinaia di giovani. Nei tornei in memoria di Denis solo in Emilia Romagna ogni anno muoviamo circa 400 giovani. E poi c'è stato il torneo estivo organizzato in Calabria dalla Scuola Calcio Denis Bergamini, le stupende coreografie, i tifosi, sempre presenti e attenti a questa vicenda come anche la società civile. Manca solo la giustizia".
Tra pochi giorni sarà il compleanno di Denis.
"Non siamo ancora al 18 di settembre, giorno in cui avrebbe compiuto 53 anni. Sarebbe bello sapere qualcosa, entro quel giorno. Ad oggi ciò che sappiamo è che solo quando l'asfalto diventerà un mare anche i morti si potranno tuffare".
E intanto, come diceva la stessa Donata due mesi fa, il tempo se ne va.
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Re: VERITA' PER DENIS!
Giustizia e Verità per Denis Bergamini.
L’omicidio volontario del calciatore del Cosenza Calcio Denis Bergamini è una delle pagine più nere della città di Cosenza. L’hanno scritta in tanti, non solo quelli che l’hanno ucciso. L’hanno scritta tutti quelli che hanno contribuito a nascondere la verità per più di vent’anni: magistrati, poliziotti, carabinieri, dirigenti e calciatori del Cosenza Calcio, giornalisti (compreso chi scrive), uomini d’onore…
Tutti sapevano o erano in condizione di sapere ma nessuno ha fatto niente di concreto per aiutare chi quella verità la cercava e la pretendeva. La parola d’ordine era: prudenza. Una prudenza a dir poco sospetta in una città nella quale invece custodire un segreto è operazione impossibile.
L’omicidio di Denis Bergamini, come gli altri Cold Case di questa città, è anche un modo per riscrivere la storia recente di Cosenza, che non può essere quella che ci hanno propinato i pentiti e la Procura della Repubblica attraverso le loro “voci ufficiali”. Questo, purtroppo, è solo un piccolo assaggio di quello che poteva accadere a Cosenza e rimanere impunito quasi con leggerezza. Ma, tra tutti i “segreti” di questa città, quello relativo alla morte di Denis Bergamini è uno dei più miserabili e vergognosi.
Di solito, l’omertà viene abbinata alla mafia o, più in generale, alla malavita. Qui invece l’omertà va doverosamente accoppiata a quei pezzi deviati dello stato (magistrati di Castrovillari e forze dell’ordine soprattutto) che hanno concepito e insabbiato consapevolmente l’omicidio volontario di un ragazzo al quale tutti volevano bene, uno degli idoli della città di Cosenza.
La malavita sapeva, ha assicurato la copertura logistica ma non ha potuto far niente per rivelare quanto era accaduto. Avete mai sentito parlare, prima che qualcuno (bontà sua) si accorgesse della trattativa tra stato e mafia, di un pentito di malavita che accusa un poliziotto, un carabiniere o un magistrato? O di giornalisti che provano a sputtanare tutto il marcio che c’è dentro la borghesia di una città?
Nella nostra democrazia malata, dunque, è potuto accadere che per vent’anni un omicidio efferato come quello di Denis Bergamini sia stato oggetto di assurdi depistaggi e di indagini semplicemente ridicole. Perché è vero che lo stato non può condannare se stesso senza nessuno che provi a dire la verità ma a tutto c’è un limite. Un limite che, nel caso Bergamini, è stato oltrepassato troppe volte e ha goduto della vergognosa complicità di giornalisti asserviti alle logiche perverse di uomini senza dignità.
Il biondo centrocampista ferrarese è finito sotto un Tir, il 18 novembre 1989, lungo la famigerata statale 106 Jonica, a Roseto Capo Spulico. Per la giustizia si è trattato di un suicidio fino al 2011 quando il caso è stato riaperto per omicidio volontario ma archiviato dopo qualche anno. Il calciatore si sarebbe buttato sotto il camion anzi tuffato come si fa in piscina perché sarebbe stato stanco del mondo del calcio… E sarebbe stato trascinato per 60 metri!
Denis Bergamini è stato ucciso perché una donna, la sua ex fidanzata Isabella Internò (ovviamente unica testimone!), non sopportava che non volesse saperne più di lei nonostante un aborto al quinto mese e mezzo praticato a Londra (voluto peraltro espressamente dalla signora) e forse un’altra interruzione di gravidanza maturata pochi mesi prima della morte di Denis. In questo caso la signora Internò l’avrebbe volentieri evitata ma sarebbe stata costretta a farla per evitare che qualcuno gli rendesse conto di chi fosse il padre.
Motivi passionali o se preferite d’onore. Cavalcati da pezzi deviati dello stato, evidentemente funzionali al disegno criminoso di Isabella Internò. Tutti sanno, del resto, che la signora ha sposato un poliziotto, tale Luciano Conte, all’epoca in servizio alla squadra mobile di Palermo e oggi alla polizia giudiziaria di Paola.
Bergamini è stato “prelevato” dalla stessa Isabella e dai suoi complici (tra i quali sicuramente suo cugino Dino Pippo Internò) al cinema Garden mentre era in ritiro con la squadra e portato a Roseto Capo Spulico, nella giurisdizione della Procura di Castrovillari, totalmente complice degli assassini. L’uomo-chiave è il sostituto procuratore Ottavio Abbate, successivamente presidente del Tribunale fino al 2012.
Bergamini è stato ucciso e il suo corpo messo vicino a un Fiat Iveco 180 quando era già cadavere. Un piano abilmente studiato da una serie di servitori dello stato che hanno fatto di tutto per coprire la Internò e i suoi complici assassini. Magistrati, carabinieri (in primis il brigadiere Barbuscio, autore dei tragicomici rilievi sul luogo dell’omicidio), poliziotti (quelli cosentini, perfettamente a conoscenza della dinamica del delitto).
A stabilire che Bergamini era già cadavere quando è finito sotto il Tir non sono stati solo i Ris dei carabinieri ma soprattutto un anatomo-patologo torinese, Roberto Testi, incaricato dalla Procura di Castrovillari di svolgere gli esami sui reperti istologici estratti durante l’autopsia dal cadavere di Bergamini. E’ da questi esami che emerge una verità che in tanti ormai davano per assodata: Denis era già morto quando il camion gli è passato sopra.
I Ris di Messina nella loro perizia, invece, hanno dimostrato senza possibilità di errore che Denis non è stato trascinato dal camion ma soltanto sormontato.
Qualcuno, dunque, l’ha ammazzato e ha inscenato un falso suicidio per confondere le acque, tanto bene che per oltre due decenni il rebus è sembrato insolubile. Anche se sul corpo di Bergamini, a parte la breccia sull’addome provocata dal sormontamento del camion, non c’è nulla ma davvero nulla che possa far pensare a un trascinamento di sessanta metri. Non un graffio, non una frattura, nulla!
Perché per più di vent’anni qualcuno ha astutamente depistato ogni possibile sospetto.
Nessuna vera indagine è stata mai aperta, nessuno ha cercato mai di approfondire le cause e le modalità della morte stessa e nessuno ha aperto un qualche procedimento giudiziario, nessun avviso di garanzia è mai stato spedito, nessuno si è preoccupato di verificare se le testimonianze rese erano credibili, nessuno si è preso la briga di accertare non solo le cause della morte (l’autopsia al momento fu ritenuta superflua data la di “per sé evidente” (!!!) sequenza dei fatti e, quindi, nemmeno l’ora della morte è stata accertata) ma anche come essa era avvenuta. Perché è accaduto tutto questo?
Soltanto analizzando con obiettività questo disastro è stato possibile risalire al vero movente dell’omicidio.
Per anni è prevalsa una teoria terribile, che anche noi cosentini, noi che conoscevamo bene Denis, abbiamo avallato: se lo hanno ucciso qualcosa avrà pure fatto!
Alla tragedia si è aggiunta la beffa di un ragazzo inserito nel giro della mafia o magari della droga per non parlare del calcio scommesse!
Già, tutto regolare. In Italia accade spesso di trovarsi davanti a “misteri” inestricabili. Ma perché succede?
Chi continua a proteggere lo stato e quindi il potere giudiziario e quello investigativo se ne deve fare una ragione, anche se i concetti che stiamo esprimendo sono di una gravità inaudita.
Il fatto è che i cittadini italiani hanno una Costituzione che ne tutela i diritti e tra questi diritti c’è anche quello alla vita.
La Costituzione affida ad una magistratura indipendente e agli organi di polizia (che tuttavia agiscono sotto la guida di un magistrato che cura e dispone le indagini) il rispetto delle leggi dello Stato. E allora? Si può sapere perché magistratura e organi di polizia hanno dormito e non hanno indagato? Se fossimo davanti ad assassini legati alla criminalità organizzata, com’è possibile che siano stati coperti per oltre vent’anni?
Qui non siamo di fronte ad un mistero ma ad un caso di “ordinaria follia”. Uno stato inefficiente, inefficace, connivente che protegge non si sa bene chi e non si sa bene cosa. Oddio, ormai la matassa l’abbiamo capita ma non è questo il punto.
In Italia esiste l’obbligatorietà dell’azione penale. Quella obbligatorietà che ha fatto sì che in questi ultimi 20 anni si sia indagato su tutto e di tutto. Eppure a nessuno è venuto in mente di indagare sul caso Bergamini ed è servito un movimento di opinione popolare per aprire gli occhi al potere giudiziario, a quello investigativo e finanche ai media, che avevano contribuito e non poco all’insabbiamento.
Per oltre vent’anni c’è stato un concorso di insensibilità da parte del sistema mediatico… Un sistema che sembrava e per certi versi sembra ancora una macchina ermetica, programmata per non sostenere la ricerca della verità. Eppure il caso Bergamini poteva rappresentare una “calamita” per cercare di fare giornalismo…
Ed è proprio perché ci sono state queste protezioni insuperabili, quella dello stato e quella dei media, che una signora come Isabella Internò, l’unica testimone del presunto suicidio di Bergamini, può ancora girare tranquilla per le strade di Cosenza.
Il suo consorte poliziotto, poiché dovrebbe servire lo stato, avrebbe anche il dovere di indurre sua moglie a dire tutto quello che sa. Perché è evidente che nella migliore delle ipotesi Isabella Internò copre qualcuno. Copre gli assassini di Denis Bergamini e questo non può essere possibile.
I professionisti dell’anti informazione hanno provato a coinvolgere i pentiti di mafia e hanno disperatamente provato a cavalcare il movente del calcio scommesse gestito dalla criminalità. Ma in questo caso, per fortuna, l’operazione (andata avanti spudoratamente con l’omicidio Lanzino) si è fermata sul nascere.
La storia della città di Cosenza non può venire a raccontarcela Franco Pino, penoso burattino in mano ai poteri forti di questo territorio. Il Cosenza non è mai stato implicato in vicende relative al calcio scommesse nel periodo in cui giocava Bergamini e le stesse tragicomiche dichiarazioni del pentito sull’argomento non hanno mai avuto un seguito.
La pista della droga è miseramente naufragata perché sulla Maserati non ci sono né doppi fondi né tracce di sostanze stupefacenti. Eppure hanno provato in tutti i modi a inserire in questa storia fantasiosi traffici legati al Cosenza Calcio.
Sarebbe anche ora che i dirigenti della società dell’epoca prendessero la parola per sgombrare il campo da ogni strumentale equivoco agitato da chi non vuole rassegnarsi ad ammettere la verità. Ma purtroppo non lo fanno.
E’ rimasta in piedi solo la pista che porta al rapporto tra Isabella e Denis, quella passionale. Ed è questa l’unica chiave di lettura possibile.
Ma qualcuno ha deciso che l’omicidio di Denis Bergamini debba rimanere per sempre un Cold Case.
http://www.iacchite.it - 03/09/2015.
L’omicidio volontario del calciatore del Cosenza Calcio Denis Bergamini è una delle pagine più nere della città di Cosenza. L’hanno scritta in tanti, non solo quelli che l’hanno ucciso. L’hanno scritta tutti quelli che hanno contribuito a nascondere la verità per più di vent’anni: magistrati, poliziotti, carabinieri, dirigenti e calciatori del Cosenza Calcio, giornalisti (compreso chi scrive), uomini d’onore…
Tutti sapevano o erano in condizione di sapere ma nessuno ha fatto niente di concreto per aiutare chi quella verità la cercava e la pretendeva. La parola d’ordine era: prudenza. Una prudenza a dir poco sospetta in una città nella quale invece custodire un segreto è operazione impossibile.
L’omicidio di Denis Bergamini, come gli altri Cold Case di questa città, è anche un modo per riscrivere la storia recente di Cosenza, che non può essere quella che ci hanno propinato i pentiti e la Procura della Repubblica attraverso le loro “voci ufficiali”. Questo, purtroppo, è solo un piccolo assaggio di quello che poteva accadere a Cosenza e rimanere impunito quasi con leggerezza. Ma, tra tutti i “segreti” di questa città, quello relativo alla morte di Denis Bergamini è uno dei più miserabili e vergognosi.
Di solito, l’omertà viene abbinata alla mafia o, più in generale, alla malavita. Qui invece l’omertà va doverosamente accoppiata a quei pezzi deviati dello stato (magistrati di Castrovillari e forze dell’ordine soprattutto) che hanno concepito e insabbiato consapevolmente l’omicidio volontario di un ragazzo al quale tutti volevano bene, uno degli idoli della città di Cosenza.
La malavita sapeva, ha assicurato la copertura logistica ma non ha potuto far niente per rivelare quanto era accaduto. Avete mai sentito parlare, prima che qualcuno (bontà sua) si accorgesse della trattativa tra stato e mafia, di un pentito di malavita che accusa un poliziotto, un carabiniere o un magistrato? O di giornalisti che provano a sputtanare tutto il marcio che c’è dentro la borghesia di una città?
Nella nostra democrazia malata, dunque, è potuto accadere che per vent’anni un omicidio efferato come quello di Denis Bergamini sia stato oggetto di assurdi depistaggi e di indagini semplicemente ridicole. Perché è vero che lo stato non può condannare se stesso senza nessuno che provi a dire la verità ma a tutto c’è un limite. Un limite che, nel caso Bergamini, è stato oltrepassato troppe volte e ha goduto della vergognosa complicità di giornalisti asserviti alle logiche perverse di uomini senza dignità.
Il biondo centrocampista ferrarese è finito sotto un Tir, il 18 novembre 1989, lungo la famigerata statale 106 Jonica, a Roseto Capo Spulico. Per la giustizia si è trattato di un suicidio fino al 2011 quando il caso è stato riaperto per omicidio volontario ma archiviato dopo qualche anno. Il calciatore si sarebbe buttato sotto il camion anzi tuffato come si fa in piscina perché sarebbe stato stanco del mondo del calcio… E sarebbe stato trascinato per 60 metri!
Denis Bergamini è stato ucciso perché una donna, la sua ex fidanzata Isabella Internò (ovviamente unica testimone!), non sopportava che non volesse saperne più di lei nonostante un aborto al quinto mese e mezzo praticato a Londra (voluto peraltro espressamente dalla signora) e forse un’altra interruzione di gravidanza maturata pochi mesi prima della morte di Denis. In questo caso la signora Internò l’avrebbe volentieri evitata ma sarebbe stata costretta a farla per evitare che qualcuno gli rendesse conto di chi fosse il padre.
Motivi passionali o se preferite d’onore. Cavalcati da pezzi deviati dello stato, evidentemente funzionali al disegno criminoso di Isabella Internò. Tutti sanno, del resto, che la signora ha sposato un poliziotto, tale Luciano Conte, all’epoca in servizio alla squadra mobile di Palermo e oggi alla polizia giudiziaria di Paola.
Bergamini è stato “prelevato” dalla stessa Isabella e dai suoi complici (tra i quali sicuramente suo cugino Dino Pippo Internò) al cinema Garden mentre era in ritiro con la squadra e portato a Roseto Capo Spulico, nella giurisdizione della Procura di Castrovillari, totalmente complice degli assassini. L’uomo-chiave è il sostituto procuratore Ottavio Abbate, successivamente presidente del Tribunale fino al 2012.
Bergamini è stato ucciso e il suo corpo messo vicino a un Fiat Iveco 180 quando era già cadavere. Un piano abilmente studiato da una serie di servitori dello stato che hanno fatto di tutto per coprire la Internò e i suoi complici assassini. Magistrati, carabinieri (in primis il brigadiere Barbuscio, autore dei tragicomici rilievi sul luogo dell’omicidio), poliziotti (quelli cosentini, perfettamente a conoscenza della dinamica del delitto).
A stabilire che Bergamini era già cadavere quando è finito sotto il Tir non sono stati solo i Ris dei carabinieri ma soprattutto un anatomo-patologo torinese, Roberto Testi, incaricato dalla Procura di Castrovillari di svolgere gli esami sui reperti istologici estratti durante l’autopsia dal cadavere di Bergamini. E’ da questi esami che emerge una verità che in tanti ormai davano per assodata: Denis era già morto quando il camion gli è passato sopra.
I Ris di Messina nella loro perizia, invece, hanno dimostrato senza possibilità di errore che Denis non è stato trascinato dal camion ma soltanto sormontato.
Qualcuno, dunque, l’ha ammazzato e ha inscenato un falso suicidio per confondere le acque, tanto bene che per oltre due decenni il rebus è sembrato insolubile. Anche se sul corpo di Bergamini, a parte la breccia sull’addome provocata dal sormontamento del camion, non c’è nulla ma davvero nulla che possa far pensare a un trascinamento di sessanta metri. Non un graffio, non una frattura, nulla!
Perché per più di vent’anni qualcuno ha astutamente depistato ogni possibile sospetto.
Nessuna vera indagine è stata mai aperta, nessuno ha cercato mai di approfondire le cause e le modalità della morte stessa e nessuno ha aperto un qualche procedimento giudiziario, nessun avviso di garanzia è mai stato spedito, nessuno si è preoccupato di verificare se le testimonianze rese erano credibili, nessuno si è preso la briga di accertare non solo le cause della morte (l’autopsia al momento fu ritenuta superflua data la di “per sé evidente” (!!!) sequenza dei fatti e, quindi, nemmeno l’ora della morte è stata accertata) ma anche come essa era avvenuta. Perché è accaduto tutto questo?
Soltanto analizzando con obiettività questo disastro è stato possibile risalire al vero movente dell’omicidio.
Per anni è prevalsa una teoria terribile, che anche noi cosentini, noi che conoscevamo bene Denis, abbiamo avallato: se lo hanno ucciso qualcosa avrà pure fatto!
Alla tragedia si è aggiunta la beffa di un ragazzo inserito nel giro della mafia o magari della droga per non parlare del calcio scommesse!
Già, tutto regolare. In Italia accade spesso di trovarsi davanti a “misteri” inestricabili. Ma perché succede?
Chi continua a proteggere lo stato e quindi il potere giudiziario e quello investigativo se ne deve fare una ragione, anche se i concetti che stiamo esprimendo sono di una gravità inaudita.
Il fatto è che i cittadini italiani hanno una Costituzione che ne tutela i diritti e tra questi diritti c’è anche quello alla vita.
La Costituzione affida ad una magistratura indipendente e agli organi di polizia (che tuttavia agiscono sotto la guida di un magistrato che cura e dispone le indagini) il rispetto delle leggi dello Stato. E allora? Si può sapere perché magistratura e organi di polizia hanno dormito e non hanno indagato? Se fossimo davanti ad assassini legati alla criminalità organizzata, com’è possibile che siano stati coperti per oltre vent’anni?
Qui non siamo di fronte ad un mistero ma ad un caso di “ordinaria follia”. Uno stato inefficiente, inefficace, connivente che protegge non si sa bene chi e non si sa bene cosa. Oddio, ormai la matassa l’abbiamo capita ma non è questo il punto.
In Italia esiste l’obbligatorietà dell’azione penale. Quella obbligatorietà che ha fatto sì che in questi ultimi 20 anni si sia indagato su tutto e di tutto. Eppure a nessuno è venuto in mente di indagare sul caso Bergamini ed è servito un movimento di opinione popolare per aprire gli occhi al potere giudiziario, a quello investigativo e finanche ai media, che avevano contribuito e non poco all’insabbiamento.
Per oltre vent’anni c’è stato un concorso di insensibilità da parte del sistema mediatico… Un sistema che sembrava e per certi versi sembra ancora una macchina ermetica, programmata per non sostenere la ricerca della verità. Eppure il caso Bergamini poteva rappresentare una “calamita” per cercare di fare giornalismo…
Ed è proprio perché ci sono state queste protezioni insuperabili, quella dello stato e quella dei media, che una signora come Isabella Internò, l’unica testimone del presunto suicidio di Bergamini, può ancora girare tranquilla per le strade di Cosenza.
Il suo consorte poliziotto, poiché dovrebbe servire lo stato, avrebbe anche il dovere di indurre sua moglie a dire tutto quello che sa. Perché è evidente che nella migliore delle ipotesi Isabella Internò copre qualcuno. Copre gli assassini di Denis Bergamini e questo non può essere possibile.
I professionisti dell’anti informazione hanno provato a coinvolgere i pentiti di mafia e hanno disperatamente provato a cavalcare il movente del calcio scommesse gestito dalla criminalità. Ma in questo caso, per fortuna, l’operazione (andata avanti spudoratamente con l’omicidio Lanzino) si è fermata sul nascere.
La storia della città di Cosenza non può venire a raccontarcela Franco Pino, penoso burattino in mano ai poteri forti di questo territorio. Il Cosenza non è mai stato implicato in vicende relative al calcio scommesse nel periodo in cui giocava Bergamini e le stesse tragicomiche dichiarazioni del pentito sull’argomento non hanno mai avuto un seguito.
La pista della droga è miseramente naufragata perché sulla Maserati non ci sono né doppi fondi né tracce di sostanze stupefacenti. Eppure hanno provato in tutti i modi a inserire in questa storia fantasiosi traffici legati al Cosenza Calcio.
Sarebbe anche ora che i dirigenti della società dell’epoca prendessero la parola per sgombrare il campo da ogni strumentale equivoco agitato da chi non vuole rassegnarsi ad ammettere la verità. Ma purtroppo non lo fanno.
E’ rimasta in piedi solo la pista che porta al rapporto tra Isabella e Denis, quella passionale. Ed è questa l’unica chiave di lettura possibile.
Ma qualcuno ha deciso che l’omicidio di Denis Bergamini debba rimanere per sempre un Cold Case.
http://www.iacchite.it - 03/09/2015.
ODIO ETERNO AL CALCIO MODERNO!!!
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Re: VERITA' PER DENIS!
difronte lo stadio ... la piazza antistante a uno dei due palazzoni in costruzione si chiamerà piazza DENIS BERGAMINI
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Re: VERITA' PER DENIS!
Ma qual è di preciso? Lo slargo dove ci sono i prefiltraggi della tribuna A?luca 75 ha scritto:difronte lo stadio ... la piazza antistante a uno dei due palazzoni in costruzione si chiamerà piazza DENIS BERGAMINI
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Re: VERITA' PER DENIS!
caz* però, se solo avessimo fatto la richiesta un pochino prima magari avrebbero fatto in tempo a fare l'intitolazione per il 18... Che peccatorebelde ha scritto:http://denisbergamini.com/cosenza-final ... ni-210915/
P.S: desolante silenzio della società, sempre presenti su richiesta (a differenza del 200% dei loro predecessori), ma iniziativa sempre e comunque 0
Lode a te
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Re: VERITA' PER DENIS!
Omicidio Bergamini, tutti gli indizi contro il cugino di Isabella Internò.
Nel pomeriggio di lunedì 20 novembre 1989 diecimila persone partecipano ai funerali di Denis Bergamini nella chiesa della MARONNA di Loreto.
Isabella Internò, l’ex fidanzata del calciatore, unica testimone dell’omicidio, destinataria di un avviso di garanzia con l’ipotesi di reato di concorso in omicidio, è presente ed è accompagnata da due cugini.
Si tratta principalmente di Alfredo Internò, detto Pippo o Dino, aspirante guardia giurata, cugino di primo grado di Isabella, che in pratica la “scorta” in ogni momento della celebrazione.
Dino Pippo Internò, che ha studiato all’Istituto Agrario, non brilla certo per savoir faire e istruzione.
Quando parla sembra che grugnisca e si distingue soprattutto per un atteggiamento “malandrino” provocato quasi certamente da qualche frequentazione con elementi (non certo di primo livello) dell’ambiente malavitoso cosentino. In poche parole, uno che ha le scarpe grosse come i “tamarri” ma non certo il cervello fino come recita il vecchio adagio.
L’altro è il marito della cugina, che crede di mimetizzarsi con un paio di occhiali scuri. In realtà, quegli occhiali non faranno altro che metterlo ancora di più in evidenza. Si chiama Francesco Arcuri.
Il particolare colpisce molti cosentini presenti ai funerali e si sparge la voce che Isabella Internò sia “scortata” da poliziotti in borghese per proteggerla da eventuali malavitosi malintenzionati ma è soltanto una leggenda urbana. A nessuno però viene in mente di chiarire chi fossero questi due “brutti ceffi”.
La sensazione che destano questi due cugini dal fare grossolano e invadente invece è una sola: evitare che Isabella possa fare qualche sciocchezza, magari parlando con qualcuno e lasciandosi scappare particolari scabrosi sull’omicidio di Bergamini.
Tanto per inserire una metafora calcistica, Pippo Dino Internò sembra uno stopper che vuole impedire al centravanti (in questo caso Isabella, la principessa della menzogna) di far gol ovvero di creare danni a chi ha pensato e commesso l’omicidio, del quale sono certamente a conoscenza tutti e tre.
Gli investigatori dell’epoca, dunque, non si preoccupano di chiarire l’identità di due personaggi così grotteschi e particolari.
Per fortuna, una mano decisiva ce la dà Tiziana Rota, la moglie di Maurizio Lucchetti, compagno di squadra di Denis fino alla stagione precedente, che è rimasta molto amica di Isabella Internò.
A maggio del 1989 partorisce la sua prima bambina e a novembre torna a Cosenza per trovare alcuni amici e ritirare un’auto e in quell’occasione si accorda per incontrare anche Isabella.
E’ il 6 novembre 1989 ovvero dodici giorni prima della morte di Denis Bergamini. La testimonianza della moglie di Lucchetti è contenuta nella controinchiesta condotta dall’avvocato Eugenio Gallerani ed è stata pubblicata con discreto risalto in concomitanza con l’avviso di garanzia notificato alla principessa della menzogna.
“… Le feci vedere la bambina e bevemmo qualcosa in una pasticceria di Commenda di Rende – dichiara Tiziana Rota -. Lei mi disse che con Denis era finita e che non riusciva ad accettare la cosa, ma lui non ne voleva più sapere di lei. Isa mi disse che questa non era come le altre volte (che poi tornavano assieme), anche perché era passato troppo tempo. In più mi disse che Denis non la voleva più: non la voleva più vedere e non voleva più sentirla. Isa mi disse: “Stavolta questo non torna, non torna”; “Stavolta l’ho perso”. Io le dissi: “Passano tanti treni, ne hai perso uno, prenderai il prossimo”. Isa rispose: “No, Tiziana, io lo voglio mio, deve essere mio. Piuttosto che sia di un’altra preferisco che muoia”. Ovviamente questa frase mi lasciò scossa ed è rimasta scolpita nella mia mente. Preciso che il discorso su Denis iniziò all’interno della pasticceria ma per la gran parte proseguì al di fuori. Mi disse anche che i suoi non sapevano che lui l’aveva lasciata, che non poteva dirlo a suo padre per la questione dell’onore. Isa era molto agitata. A un certo punto, dalla nostra sinistra si avvicinarono due ragazzi, mi avvisò che erano i suoi cugini e mi intimò di cambiare subito discorso perché se avessero saputo che Denis l’aveva lasciata lo avrebbero potuto ammazzare. In particolare disse: “Tizià, se sanno lo ammazzano!”. Si fermarono un attimo, salutarono Isa, che me li presentò, le chiesero se andava tutto bene e se ne andarono. Non ricordo esattamente il loro aspetto, comunque erano due ragazzotti ben robusti e dai tratti mediterranei. Io ero esterrefatta, anche perché non capivo cosa c’entrassero i cugini. Isabella mi rispose: “Tizià, tu non capisci, qui c’è l’onore, la famiglia. E’ diverso che al Nord”. Parlammo ancora di Denis, le dissi che doveva calmarsi e di lasciarlo perdere, di dimenticarlo, poi ci salutammo sempre con l’idea di risentirci. Posso dire che quell’incontro mi è rimasto particolarmente impresso. Ciò non solo per le frasi pronunciate, per l’arrivo dei cugini con la conseguente frase di Isa, ma anche perché lei era molto nervosa e agitata, come non l’avevo mai vista. Mi colpì anche il fatto che Isa, quando vide arrivare i cugini, si spaventò e agitò ancora di più e mi intimò di cambiare discorso”.
La lente di ingrandimento degli investigatori, quando il caso Bergamini viene riaperto, si concentra subito su questi due cugini. Uno è sempre lui, Alfredo Internò detto Dino e Pippo, che nel frattempo ha coronato il suo sogno di fare la guardia giurata. L’altro non è più il marito della cugina ma il fratello di Pippo, tale Roberto Internò, dalle caratteristiche più o meno simili a quelle del germano.
I carabinieri del Gruppo Zeta, che curano l’attività investigativa, si preoccupano subito di intercettare le conversazioni di Isabella Internò e tra i documenti che fanno parte della grottesca richiesta di archiviazione presentata dal pavido e scadente (ormai ex) procuratore Giacomantonio, c’è un passaggio molto interessante.
E’ il 23 dicembre del 2011. Isabella è stata ascoltata da una ventina di giorni come persona informata sui fatti.
La Internò, in questo colloquio, riferisce a Pippo la circostanza, strappandogli soltanto, oltre ai soliti grugniti, un “così la finiscono di rompere le pal**” che dipinge il soggetto in tutta la sua dimensione picaresca.
Isabella gli dice di essere serena e cerca quasi conferme dal suo fedele scudiero: “… Perché la verità (fa un certo effetto sentire dire questa parola dalla principessa della menzogna, ndr) è quella… Oi Pi’, tu lo sai, c’eri proprio, quindi…”.
Anche gli investigatori meno capaci potrebbero intuire che quel riferimento alla presenza di Dino Pippo Internò possa alludere alla scena dell’omicidio di Bergamini. E ci sono più indizi, sempre nelle carte a disposizione della procura di Castrovillari, che vanno nella direzione giusta, ossia quella della presenza di Pippo Internò sul posto del delitto.
I carabinieri del Gruppo Zeta danno grande importanza a quel colloquio ma quelli che subentreranno a loro nell’inchiesta sottovaluteranno clamorosamente sia questo sia molti altri indizi che sono disseminati nel lavoro investigativo.
Basti pensare che non ritengono neanche utile ascoltare il bifolco di cui sopra. O meglio, lo convocano per il 18 maggio 2013 a Castrovillari ma non riescono a sentirlo perché il soggetto deve subire un intervento chirurgico a Milano. Pippo tuttavia è ben presente a una “riunione di famiglia” che si svolge a Cosenza appena due giorni prima dell’interrogatorio del cugino di Isabella. Sono presenti, oltre a lui, anche il fratello Roberto, il marito di Isabella, il poliziotto Luciano Conte, la sorella Katia e l’onnipresente marito Gianluca Tiesi, personaggio molto influente su Isabella e sul suo consorte. Purtroppo di questa riunione non esistono intercettazioni.
http://www.iacchite.com - 16/10/2015.
Nel pomeriggio di lunedì 20 novembre 1989 diecimila persone partecipano ai funerali di Denis Bergamini nella chiesa della MARONNA di Loreto.
Isabella Internò, l’ex fidanzata del calciatore, unica testimone dell’omicidio, destinataria di un avviso di garanzia con l’ipotesi di reato di concorso in omicidio, è presente ed è accompagnata da due cugini.
Si tratta principalmente di Alfredo Internò, detto Pippo o Dino, aspirante guardia giurata, cugino di primo grado di Isabella, che in pratica la “scorta” in ogni momento della celebrazione.
Dino Pippo Internò, che ha studiato all’Istituto Agrario, non brilla certo per savoir faire e istruzione.
Quando parla sembra che grugnisca e si distingue soprattutto per un atteggiamento “malandrino” provocato quasi certamente da qualche frequentazione con elementi (non certo di primo livello) dell’ambiente malavitoso cosentino. In poche parole, uno che ha le scarpe grosse come i “tamarri” ma non certo il cervello fino come recita il vecchio adagio.
L’altro è il marito della cugina, che crede di mimetizzarsi con un paio di occhiali scuri. In realtà, quegli occhiali non faranno altro che metterlo ancora di più in evidenza. Si chiama Francesco Arcuri.
Il particolare colpisce molti cosentini presenti ai funerali e si sparge la voce che Isabella Internò sia “scortata” da poliziotti in borghese per proteggerla da eventuali malavitosi malintenzionati ma è soltanto una leggenda urbana. A nessuno però viene in mente di chiarire chi fossero questi due “brutti ceffi”.
La sensazione che destano questi due cugini dal fare grossolano e invadente invece è una sola: evitare che Isabella possa fare qualche sciocchezza, magari parlando con qualcuno e lasciandosi scappare particolari scabrosi sull’omicidio di Bergamini.
Tanto per inserire una metafora calcistica, Pippo Dino Internò sembra uno stopper che vuole impedire al centravanti (in questo caso Isabella, la principessa della menzogna) di far gol ovvero di creare danni a chi ha pensato e commesso l’omicidio, del quale sono certamente a conoscenza tutti e tre.
Gli investigatori dell’epoca, dunque, non si preoccupano di chiarire l’identità di due personaggi così grotteschi e particolari.
Per fortuna, una mano decisiva ce la dà Tiziana Rota, la moglie di Maurizio Lucchetti, compagno di squadra di Denis fino alla stagione precedente, che è rimasta molto amica di Isabella Internò.
A maggio del 1989 partorisce la sua prima bambina e a novembre torna a Cosenza per trovare alcuni amici e ritirare un’auto e in quell’occasione si accorda per incontrare anche Isabella.
E’ il 6 novembre 1989 ovvero dodici giorni prima della morte di Denis Bergamini. La testimonianza della moglie di Lucchetti è contenuta nella controinchiesta condotta dall’avvocato Eugenio Gallerani ed è stata pubblicata con discreto risalto in concomitanza con l’avviso di garanzia notificato alla principessa della menzogna.
“… Le feci vedere la bambina e bevemmo qualcosa in una pasticceria di Commenda di Rende – dichiara Tiziana Rota -. Lei mi disse che con Denis era finita e che non riusciva ad accettare la cosa, ma lui non ne voleva più sapere di lei. Isa mi disse che questa non era come le altre volte (che poi tornavano assieme), anche perché era passato troppo tempo. In più mi disse che Denis non la voleva più: non la voleva più vedere e non voleva più sentirla. Isa mi disse: “Stavolta questo non torna, non torna”; “Stavolta l’ho perso”. Io le dissi: “Passano tanti treni, ne hai perso uno, prenderai il prossimo”. Isa rispose: “No, Tiziana, io lo voglio mio, deve essere mio. Piuttosto che sia di un’altra preferisco che muoia”. Ovviamente questa frase mi lasciò scossa ed è rimasta scolpita nella mia mente. Preciso che il discorso su Denis iniziò all’interno della pasticceria ma per la gran parte proseguì al di fuori. Mi disse anche che i suoi non sapevano che lui l’aveva lasciata, che non poteva dirlo a suo padre per la questione dell’onore. Isa era molto agitata. A un certo punto, dalla nostra sinistra si avvicinarono due ragazzi, mi avvisò che erano i suoi cugini e mi intimò di cambiare subito discorso perché se avessero saputo che Denis l’aveva lasciata lo avrebbero potuto ammazzare. In particolare disse: “Tizià, se sanno lo ammazzano!”. Si fermarono un attimo, salutarono Isa, che me li presentò, le chiesero se andava tutto bene e se ne andarono. Non ricordo esattamente il loro aspetto, comunque erano due ragazzotti ben robusti e dai tratti mediterranei. Io ero esterrefatta, anche perché non capivo cosa c’entrassero i cugini. Isabella mi rispose: “Tizià, tu non capisci, qui c’è l’onore, la famiglia. E’ diverso che al Nord”. Parlammo ancora di Denis, le dissi che doveva calmarsi e di lasciarlo perdere, di dimenticarlo, poi ci salutammo sempre con l’idea di risentirci. Posso dire che quell’incontro mi è rimasto particolarmente impresso. Ciò non solo per le frasi pronunciate, per l’arrivo dei cugini con la conseguente frase di Isa, ma anche perché lei era molto nervosa e agitata, come non l’avevo mai vista. Mi colpì anche il fatto che Isa, quando vide arrivare i cugini, si spaventò e agitò ancora di più e mi intimò di cambiare discorso”.
La lente di ingrandimento degli investigatori, quando il caso Bergamini viene riaperto, si concentra subito su questi due cugini. Uno è sempre lui, Alfredo Internò detto Dino e Pippo, che nel frattempo ha coronato il suo sogno di fare la guardia giurata. L’altro non è più il marito della cugina ma il fratello di Pippo, tale Roberto Internò, dalle caratteristiche più o meno simili a quelle del germano.
I carabinieri del Gruppo Zeta, che curano l’attività investigativa, si preoccupano subito di intercettare le conversazioni di Isabella Internò e tra i documenti che fanno parte della grottesca richiesta di archiviazione presentata dal pavido e scadente (ormai ex) procuratore Giacomantonio, c’è un passaggio molto interessante.
E’ il 23 dicembre del 2011. Isabella è stata ascoltata da una ventina di giorni come persona informata sui fatti.
La Internò, in questo colloquio, riferisce a Pippo la circostanza, strappandogli soltanto, oltre ai soliti grugniti, un “così la finiscono di rompere le pal**” che dipinge il soggetto in tutta la sua dimensione picaresca.
Isabella gli dice di essere serena e cerca quasi conferme dal suo fedele scudiero: “… Perché la verità (fa un certo effetto sentire dire questa parola dalla principessa della menzogna, ndr) è quella… Oi Pi’, tu lo sai, c’eri proprio, quindi…”.
Anche gli investigatori meno capaci potrebbero intuire che quel riferimento alla presenza di Dino Pippo Internò possa alludere alla scena dell’omicidio di Bergamini. E ci sono più indizi, sempre nelle carte a disposizione della procura di Castrovillari, che vanno nella direzione giusta, ossia quella della presenza di Pippo Internò sul posto del delitto.
I carabinieri del Gruppo Zeta danno grande importanza a quel colloquio ma quelli che subentreranno a loro nell’inchiesta sottovaluteranno clamorosamente sia questo sia molti altri indizi che sono disseminati nel lavoro investigativo.
Basti pensare che non ritengono neanche utile ascoltare il bifolco di cui sopra. O meglio, lo convocano per il 18 maggio 2013 a Castrovillari ma non riescono a sentirlo perché il soggetto deve subire un intervento chirurgico a Milano. Pippo tuttavia è ben presente a una “riunione di famiglia” che si svolge a Cosenza appena due giorni prima dell’interrogatorio del cugino di Isabella. Sono presenti, oltre a lui, anche il fratello Roberto, il marito di Isabella, il poliziotto Luciano Conte, la sorella Katia e l’onnipresente marito Gianluca Tiesi, personaggio molto influente su Isabella e sul suo consorte. Purtroppo di questa riunione non esistono intercettazioni.
http://www.iacchite.com - 16/10/2015.
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Re: VERITA' PER DENIS!
La procura di Castrovillari, il clan Cirillo e l’omicidio Bergamini.
Se il caso Bergamini è rimasto insabbiato per più di vent’anni, non c’è dubbio che le responsabilità maggiori siano state della procura della Repubblica di Castrovillari.
LE COLPE DELLA PROCURA
Tutti i media nazionali, che da qualche anno a questa parte si sono nuovamente interessati al caso, non hanno potuto fare a meno di rilevare le assurde e quasi irritanti contraddizioni e incongruenze dei magistrati che hanno seguito le indagini.
Il primo pubblico ministero del caso Bergamini è Ottavio Abbate, nativo di Longobardi, un piccolo paese del Tirreno cosentino. Nel 1989 è ancora relativamente giovane ma trascura incredibilmente ogni indizio e solo dopo le insistenze della famiglia Bergamini si decide (bontà sua) a disporre l’autopsia. E meno male che nel suo curriculum c’è anche un passato di vicequestore…
Per non parlare delle perizie “lette” solo e soltanto in una direzione, della stessa autopsia nella quale erano e sono contenuti i rilievi per dare un’altra lettura del caso e della miriade di testimoni, quasi volutamente ignorati per non arrivare alla verità. Diciamocelo francamente: soltanto un giudice “strabico”, se non vogliamo chiamare in causa la malafede, non avrebbe capito che ci si trovava davanti ad un omicidio e non ad un suicidio.
Oggi Abbate è un anziano magistrato e soltanto alla fine del 2011 ha concluso il suo mandato di Presidente del Tribunale.
Attualmente è il presidente del Tribunale di Campobasso.
Ma, poiché è rimasto a Castrovillari fino all’altro ieri, Abbate rappresenterebbe l’ideale continuità tra il passato e il presente di questa procura. La speranza è che il nuovo procuratore Eugenio Facciolla cambi completamente registro dimostrando quell’integrità morale che chi l’ha preceduto non ha avuto in tutti questi lunghissimi anni.
I COMUNI DELLA GIURISDIZIONE: LA SIBARITIDE
Il Tribunale di Castrovillari esercitava la propria giurisdizione su 39 Comuni con una popolazione di 135.246 abitanti, pari a 2.029,32 abitanti per chilometro quadrato, residenti su un territorio morfologicamente diverso e complesso. Dal montuoso ed impervio al marittimo e rivierasco. Poi c’è stata l’aggiunta dei comuni ricadenti nel Tribunale di Rossano, chiuso qualche tempo fa.
Ma la nostra attenzione va sulla Sibaritide. All’interno di questa giurisdizione ci sono tutti i 60 chilometri di costa sibarita (da Rocca Imperiale a Sibari), compresi i sette Comuni litoranei (oltre a Rocca Imperiale, Montegiordano, Roseto Capo Spulico, Amendolara, Trebisacce, Villapiana e Cassano) più importanti della Sibaritide.
Cerchiamo allora di mettere a fuoco qual era la realtà criminale di questa zona molto importante della Calabria. Se consideriamo la Sibaritide una provincia, come ancora oggi è auspicato da molti, Cassano ne costituisce naturalmente la “mala capitale”.
La mafia nasce, si sviluppa e si potenzia nelle zone più ricche, poiché ha bisogno di ricchezze da sfruttare a suo piacimento.
Da questo punto di vista Rossano e Corigliano dovrebbero occupare una posizione migliore sia per il volume della ricchezza che per grandezza, poiché costituiscono la naturale conurbazione della Sibaritide. La Sibaritide è un terreno molto omogeneo che va da Rocca Imperiale a Cariati e presenta problematiche molto simili, con presenza di clan la cui pericolosità non va sottovalutata per poter impostare una efficace politica di contrasto. Cassano occupa una posizione centrale e qui si coagulano una molteplicità di interessi poiché tutto finisce per convergere a Sibari, ma non si può certo affermare che Cassano è un centro di mafia mentre Corigliano e Rossano ne sono immuni. Siamo dunque al centro di un territorio nel quale la criminalità ha una infinità di interessi.
IL CLAN CIRILLO
Dovendo tracciare la genesi storica del fenomeno criminale nella Sibaritide non si può prescindere dal clan Cirillo.
Giuseppe Cirillo, capo indiscusso dell’organizzazione ed influente “mammasantissima” della Sibaritide sino al 1995 (anno del suo pentimento, lo stesso di Franco Pino), era di origine napoletana. Negli anni settanta decide, con il sostegno di alcuni “amici degli amici”, di trasferirsi in Calabria, nella zona fra Amendolara e Cariati. Non perché fosse innamorato pazzo della Calabria, né tantomeno per contrarre matrimonio con una bella “calabresella”. Cirillo viene in Calabria per fondare una ‘ndrina nella sterminata Sibaritide, tra la Sila ed il Pollino.
Don Peppino Cirillo camminava sotto la “Fibbia” di “Don Raffaele” Cutolo inteso ‘O Professore, pezzo da novanta della camorra, fondatore della Nuova Camorra Organizzata, attualmente detenuto. Col permesso anche del compare di Cutolo, il mammasantissima della ‘ndrangheta “Don Paolino” De Stefano, ammazzato ad Archi il 13 ottobre del 1985. Successivamente il suo referente con la ‘ndrangheta diventa Don Pasquale Condello, capobastone della mafia calabrese.
Come è stato più volte dimostrato, la Sibaritide è stato un luogo prescelto dalla camorra napoletana per diversificare i suoi investimenti. Qui si è presentata con il suo volto imprenditoriale rilevando alcune aziende e gestendole direttamente. In questo modo si è insediata stabilmente sul territorio ed ha iniziato a tendere i suoi tentacoli nella struttura economica locale.
Le prime tre aziende erano agricole, successivamente il suo interesse si è esteso in tutti i settori dell’economia. Don Peppino realizza insediamenti produttivi e commerciali, costringendo gli imprenditori della zona a subire in silenzio la sua invadenza.
Cirillo e il cognato, Mario Mirabile, riescono a diventare in breve tempo, interlocutori privilegiati delle due più potenti consorterie delinquenziali del Meridione. Dopo aver eliminato alcuni “alleati” che gli facevano ombra, il boss Cirillo “manda” Mirabile in Campania e il cognato di don Peppino diventa l’uomo di riferimento della “Nco” di Raffaele Cutolo nel Salernitano. Impianta bische e gestisce grandi estorsioni in accordo con “Tore u guaglione” da sempre uomo di fiducia di “don Raffaele” e Vincenzo Casillo, detto “O Nirone” braccio destro del capo assoluto della Nco.
LA PROCURA IN MANO AL CLAN CIRILLO
Siamo ormai negli anni Ottanta. Il cosiddetto “locale” di Sibari gestito da Peppino Cirillo ha il territorio in mano e le istituzioni pubbliche sono ai suoi piedi.
L’unico ente che ha percepito fin dall’inizio la pericolosità di quella presenza è stato il comune di Cassano allo Ionio.
Il sindaco è Salvatore Frasca, che negli anni Settanta e Ottanta è stato senatore e anche sottosegretario del vecchio Partito socialista.
Non a caso, Cassano allo Jonio è stato il primo comune che in Italia si è battuto per l’acquisizione e l’ utilizzazione a scopo sociale del patrimonio sequestrato alla criminalità organizzata.
Le aziende di Cirillo sono state tutte confiscate dalla magistratura ed il comune le ha utilizzate per creare il centro per il recupero dei tossicodipendenti dato in gestione all’Associazione Saman. Proprio il Comune di Cassano è stato il primo a capire la pericolosità del fenomeno Cirillo, a mobilitarsi per combatterlo, poiché le forze dell’ordine e la magistratura avevano sottovalutato clamorosamente la sua pericolosità.
Da cosa nasceva questa tiepidezza nell’azione di contrasto?
E’ proprio Salvatore Frasca a dare una risposta sotto certi aspetti inquietante. La procura di Castrovillari, che dovrebbe “controllare” certi fenomeni, non solo li tollera ma è a tutti gli effetti connivente.
«Dalla scarsa conoscenza della sua natura e della sua ramificazione nel territorio – sostiene Frasca -, tanto che la stessa magistratura gli affidò il villaggio Bagamoio che era in gestione fallimentare. Tutti i magistrati e gli avvocati di Castrovillari erano degli habitué di quel club… Cosa era veramente Cirillo lo hanno scoperto nel corso degli anni successivi, quando è apparsa con ogni evidenza la sua vera natura. Cirillo aveva creato uno stretto legame con la criminalità di Cirò estendendo di molto il suo potere mafioso anche a Corigliano e Rossano…».
Dunque, la Procura della Repubblica di Castrovillari si piega in tutto e per tutto al volere del clan Cirillo e i magistrati si fanno vedere insieme ai delinquenti senza nessun tipo di problema in questo villaggio Bagamoio.
A metà degli anni Ottanta il boss Cirillo viene indagato, arrestato e processato e finisce in galera, al soggiorno obbligato ad Ancona.
A prendere il suo posto è il cognato Mario Mirabile, che fa ritorno nella Sibaritide con il preciso obiettivo di assumere il controllo del clan. Insieme a lui tuttavia c’è anche la moglie di don Peppino, Maria Luigia Albano, per tutti “Donna Gina”. E secondo molti era proprio lei il “vero capo”.
Per sei anni la donna del boss, dal 1984 al mese di agosto del 1990 (quando poi viene ucciso Mario Mirabile), carattere forte, maniere risolute, gestisce gli affari della famiglia intrecciando anche rapporti con apparati dello Stato.
Nonostante non ci sia più don Peppino, le istituzioni pubbliche e la giustizia sono ancora ai piedi del clan.
IL CLAN CIRILLO E L’OMICIDIO BERGAMINI
Cosa significa tutto questo? Beh, è molto semplice.
Chi vuole uccidere una persona ed essere “coperto” in questo territorio non deve far altro che parlare con “Donna Gina” o con Mario Mirabile. Sono loro che assicurano killer e logistica dopo aver dato il loro assenso.
Chi poteva “agganciare” il clan Cirillo?
Non c’è dubbio che si sia potuto muovere qualcosa nell’ambito della criminalità organizzata cosentina e ci sono più indizi che ci dicono che la famiglia Internò potesse avere rapporti di amicizia con esponenti del clan “Pino-Sena”, federato (come ci dicono i rapporti delle forze dell’ordine) con i clan “Muto” di Cetraro e “Basile-Calvano” di San Lucido a livello locale ma soprattutto con il clan “Cirillo” della sterminata Sibaritide.
Ora che sappiamo che il movente dell’omicidio di Denis Bergamini è soltanto passionale, non serve essere profeti per capire che il “regista” dell’omicidio, certamente vicino alla famiglia Internò, cerca e ottiene un contatto con il clan Cirillo, magari tramite il federato clan Pino-Sena, per avere a disposizione un territorio nel quale fare quello che vuole, uccidere e rimanere impunito grazie alla “connivenza” della procura della Repubblica di Castrovillari.
Non gli servono killer. Gli serve un posto dove buttare il cadavere, un camion con il quale inscenare il suicidio, un carabiniere corrotto per fare rilievi-barzelletta e un pubblico ministero e un procuratore altrettanto corrotti per evitare che qualcuno scopra gli altarini. Il resto lo avrebbero fatto i depistaggi e qualche “amico” all’interno dei media e della città di Cosenza.
Chi è il “regista”? Di sicuro è uno che conosce molto bene gli apparati dello Stato e, soprattutto, è sicuro, ma proprio sicuro, che nessuno mai possa risalire a lui.
Fino a vent’anni fa eravamo in presenza del classico “delitto perfetto”. Ma qualcosa non ha funzionato.
Ora ci chiediamo: è giusto che sia ancora la procura di Castrovillari, dove fino a ieri era presente lo stesso pubblico ministero che ha insabbiato il caso, ad avere in mano la titolarità dell’inchiesta?
In qualsiasi altro Paese civile, i tempi sarebbero stati maturi non solo per l’arresto di qualcuno ma anche per una sana ispezione del Ministero di Grazia e Giustizia.
Vogliamo aspettare un altro insabbiamento?
http://www.iacchite.com - 19/10/2015.
Se il caso Bergamini è rimasto insabbiato per più di vent’anni, non c’è dubbio che le responsabilità maggiori siano state della procura della Repubblica di Castrovillari.
LE COLPE DELLA PROCURA
Tutti i media nazionali, che da qualche anno a questa parte si sono nuovamente interessati al caso, non hanno potuto fare a meno di rilevare le assurde e quasi irritanti contraddizioni e incongruenze dei magistrati che hanno seguito le indagini.
Il primo pubblico ministero del caso Bergamini è Ottavio Abbate, nativo di Longobardi, un piccolo paese del Tirreno cosentino. Nel 1989 è ancora relativamente giovane ma trascura incredibilmente ogni indizio e solo dopo le insistenze della famiglia Bergamini si decide (bontà sua) a disporre l’autopsia. E meno male che nel suo curriculum c’è anche un passato di vicequestore…
Per non parlare delle perizie “lette” solo e soltanto in una direzione, della stessa autopsia nella quale erano e sono contenuti i rilievi per dare un’altra lettura del caso e della miriade di testimoni, quasi volutamente ignorati per non arrivare alla verità. Diciamocelo francamente: soltanto un giudice “strabico”, se non vogliamo chiamare in causa la malafede, non avrebbe capito che ci si trovava davanti ad un omicidio e non ad un suicidio.
Oggi Abbate è un anziano magistrato e soltanto alla fine del 2011 ha concluso il suo mandato di Presidente del Tribunale.
Attualmente è il presidente del Tribunale di Campobasso.
Ma, poiché è rimasto a Castrovillari fino all’altro ieri, Abbate rappresenterebbe l’ideale continuità tra il passato e il presente di questa procura. La speranza è che il nuovo procuratore Eugenio Facciolla cambi completamente registro dimostrando quell’integrità morale che chi l’ha preceduto non ha avuto in tutti questi lunghissimi anni.
I COMUNI DELLA GIURISDIZIONE: LA SIBARITIDE
Il Tribunale di Castrovillari esercitava la propria giurisdizione su 39 Comuni con una popolazione di 135.246 abitanti, pari a 2.029,32 abitanti per chilometro quadrato, residenti su un territorio morfologicamente diverso e complesso. Dal montuoso ed impervio al marittimo e rivierasco. Poi c’è stata l’aggiunta dei comuni ricadenti nel Tribunale di Rossano, chiuso qualche tempo fa.
Ma la nostra attenzione va sulla Sibaritide. All’interno di questa giurisdizione ci sono tutti i 60 chilometri di costa sibarita (da Rocca Imperiale a Sibari), compresi i sette Comuni litoranei (oltre a Rocca Imperiale, Montegiordano, Roseto Capo Spulico, Amendolara, Trebisacce, Villapiana e Cassano) più importanti della Sibaritide.
Cerchiamo allora di mettere a fuoco qual era la realtà criminale di questa zona molto importante della Calabria. Se consideriamo la Sibaritide una provincia, come ancora oggi è auspicato da molti, Cassano ne costituisce naturalmente la “mala capitale”.
La mafia nasce, si sviluppa e si potenzia nelle zone più ricche, poiché ha bisogno di ricchezze da sfruttare a suo piacimento.
Da questo punto di vista Rossano e Corigliano dovrebbero occupare una posizione migliore sia per il volume della ricchezza che per grandezza, poiché costituiscono la naturale conurbazione della Sibaritide. La Sibaritide è un terreno molto omogeneo che va da Rocca Imperiale a Cariati e presenta problematiche molto simili, con presenza di clan la cui pericolosità non va sottovalutata per poter impostare una efficace politica di contrasto. Cassano occupa una posizione centrale e qui si coagulano una molteplicità di interessi poiché tutto finisce per convergere a Sibari, ma non si può certo affermare che Cassano è un centro di mafia mentre Corigliano e Rossano ne sono immuni. Siamo dunque al centro di un territorio nel quale la criminalità ha una infinità di interessi.
IL CLAN CIRILLO
Dovendo tracciare la genesi storica del fenomeno criminale nella Sibaritide non si può prescindere dal clan Cirillo.
Giuseppe Cirillo, capo indiscusso dell’organizzazione ed influente “mammasantissima” della Sibaritide sino al 1995 (anno del suo pentimento, lo stesso di Franco Pino), era di origine napoletana. Negli anni settanta decide, con il sostegno di alcuni “amici degli amici”, di trasferirsi in Calabria, nella zona fra Amendolara e Cariati. Non perché fosse innamorato pazzo della Calabria, né tantomeno per contrarre matrimonio con una bella “calabresella”. Cirillo viene in Calabria per fondare una ‘ndrina nella sterminata Sibaritide, tra la Sila ed il Pollino.
Don Peppino Cirillo camminava sotto la “Fibbia” di “Don Raffaele” Cutolo inteso ‘O Professore, pezzo da novanta della camorra, fondatore della Nuova Camorra Organizzata, attualmente detenuto. Col permesso anche del compare di Cutolo, il mammasantissima della ‘ndrangheta “Don Paolino” De Stefano, ammazzato ad Archi il 13 ottobre del 1985. Successivamente il suo referente con la ‘ndrangheta diventa Don Pasquale Condello, capobastone della mafia calabrese.
Come è stato più volte dimostrato, la Sibaritide è stato un luogo prescelto dalla camorra napoletana per diversificare i suoi investimenti. Qui si è presentata con il suo volto imprenditoriale rilevando alcune aziende e gestendole direttamente. In questo modo si è insediata stabilmente sul territorio ed ha iniziato a tendere i suoi tentacoli nella struttura economica locale.
Le prime tre aziende erano agricole, successivamente il suo interesse si è esteso in tutti i settori dell’economia. Don Peppino realizza insediamenti produttivi e commerciali, costringendo gli imprenditori della zona a subire in silenzio la sua invadenza.
Cirillo e il cognato, Mario Mirabile, riescono a diventare in breve tempo, interlocutori privilegiati delle due più potenti consorterie delinquenziali del Meridione. Dopo aver eliminato alcuni “alleati” che gli facevano ombra, il boss Cirillo “manda” Mirabile in Campania e il cognato di don Peppino diventa l’uomo di riferimento della “Nco” di Raffaele Cutolo nel Salernitano. Impianta bische e gestisce grandi estorsioni in accordo con “Tore u guaglione” da sempre uomo di fiducia di “don Raffaele” e Vincenzo Casillo, detto “O Nirone” braccio destro del capo assoluto della Nco.
LA PROCURA IN MANO AL CLAN CIRILLO
Siamo ormai negli anni Ottanta. Il cosiddetto “locale” di Sibari gestito da Peppino Cirillo ha il territorio in mano e le istituzioni pubbliche sono ai suoi piedi.
L’unico ente che ha percepito fin dall’inizio la pericolosità di quella presenza è stato il comune di Cassano allo Ionio.
Il sindaco è Salvatore Frasca, che negli anni Settanta e Ottanta è stato senatore e anche sottosegretario del vecchio Partito socialista.
Non a caso, Cassano allo Jonio è stato il primo comune che in Italia si è battuto per l’acquisizione e l’ utilizzazione a scopo sociale del patrimonio sequestrato alla criminalità organizzata.
Le aziende di Cirillo sono state tutte confiscate dalla magistratura ed il comune le ha utilizzate per creare il centro per il recupero dei tossicodipendenti dato in gestione all’Associazione Saman. Proprio il Comune di Cassano è stato il primo a capire la pericolosità del fenomeno Cirillo, a mobilitarsi per combatterlo, poiché le forze dell’ordine e la magistratura avevano sottovalutato clamorosamente la sua pericolosità.
Da cosa nasceva questa tiepidezza nell’azione di contrasto?
E’ proprio Salvatore Frasca a dare una risposta sotto certi aspetti inquietante. La procura di Castrovillari, che dovrebbe “controllare” certi fenomeni, non solo li tollera ma è a tutti gli effetti connivente.
«Dalla scarsa conoscenza della sua natura e della sua ramificazione nel territorio – sostiene Frasca -, tanto che la stessa magistratura gli affidò il villaggio Bagamoio che era in gestione fallimentare. Tutti i magistrati e gli avvocati di Castrovillari erano degli habitué di quel club… Cosa era veramente Cirillo lo hanno scoperto nel corso degli anni successivi, quando è apparsa con ogni evidenza la sua vera natura. Cirillo aveva creato uno stretto legame con la criminalità di Cirò estendendo di molto il suo potere mafioso anche a Corigliano e Rossano…».
Dunque, la Procura della Repubblica di Castrovillari si piega in tutto e per tutto al volere del clan Cirillo e i magistrati si fanno vedere insieme ai delinquenti senza nessun tipo di problema in questo villaggio Bagamoio.
A metà degli anni Ottanta il boss Cirillo viene indagato, arrestato e processato e finisce in galera, al soggiorno obbligato ad Ancona.
A prendere il suo posto è il cognato Mario Mirabile, che fa ritorno nella Sibaritide con il preciso obiettivo di assumere il controllo del clan. Insieme a lui tuttavia c’è anche la moglie di don Peppino, Maria Luigia Albano, per tutti “Donna Gina”. E secondo molti era proprio lei il “vero capo”.
Per sei anni la donna del boss, dal 1984 al mese di agosto del 1990 (quando poi viene ucciso Mario Mirabile), carattere forte, maniere risolute, gestisce gli affari della famiglia intrecciando anche rapporti con apparati dello Stato.
Nonostante non ci sia più don Peppino, le istituzioni pubbliche e la giustizia sono ancora ai piedi del clan.
IL CLAN CIRILLO E L’OMICIDIO BERGAMINI
Cosa significa tutto questo? Beh, è molto semplice.
Chi vuole uccidere una persona ed essere “coperto” in questo territorio non deve far altro che parlare con “Donna Gina” o con Mario Mirabile. Sono loro che assicurano killer e logistica dopo aver dato il loro assenso.
Chi poteva “agganciare” il clan Cirillo?
Non c’è dubbio che si sia potuto muovere qualcosa nell’ambito della criminalità organizzata cosentina e ci sono più indizi che ci dicono che la famiglia Internò potesse avere rapporti di amicizia con esponenti del clan “Pino-Sena”, federato (come ci dicono i rapporti delle forze dell’ordine) con i clan “Muto” di Cetraro e “Basile-Calvano” di San Lucido a livello locale ma soprattutto con il clan “Cirillo” della sterminata Sibaritide.
Ora che sappiamo che il movente dell’omicidio di Denis Bergamini è soltanto passionale, non serve essere profeti per capire che il “regista” dell’omicidio, certamente vicino alla famiglia Internò, cerca e ottiene un contatto con il clan Cirillo, magari tramite il federato clan Pino-Sena, per avere a disposizione un territorio nel quale fare quello che vuole, uccidere e rimanere impunito grazie alla “connivenza” della procura della Repubblica di Castrovillari.
Non gli servono killer. Gli serve un posto dove buttare il cadavere, un camion con il quale inscenare il suicidio, un carabiniere corrotto per fare rilievi-barzelletta e un pubblico ministero e un procuratore altrettanto corrotti per evitare che qualcuno scopra gli altarini. Il resto lo avrebbero fatto i depistaggi e qualche “amico” all’interno dei media e della città di Cosenza.
Chi è il “regista”? Di sicuro è uno che conosce molto bene gli apparati dello Stato e, soprattutto, è sicuro, ma proprio sicuro, che nessuno mai possa risalire a lui.
Fino a vent’anni fa eravamo in presenza del classico “delitto perfetto”. Ma qualcosa non ha funzionato.
Ora ci chiediamo: è giusto che sia ancora la procura di Castrovillari, dove fino a ieri era presente lo stesso pubblico ministero che ha insabbiato il caso, ad avere in mano la titolarità dell’inchiesta?
In qualsiasi altro Paese civile, i tempi sarebbero stati maturi non solo per l’arresto di qualcuno ma anche per una sana ispezione del Ministero di Grazia e Giustizia.
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Re: VERITA' PER DENIS!
Procura di Castrovillari, Facciolla si insedia il 9 novembre.
CASTROVILLARI – Si insedierà il 9 novembre il nuovo procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Castrovillari, Eugenio Facciolla.
Il magistrato cosentino, che vanta una lunga ed importante esperienza come sostituto all’interno della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro oltre che come sostituto procuratore a Cosenza, Paola e Rossano, sarà il nuovo procuratore capo nominato all’unanimità nel corso della quinta commissione del Consiglio Superiore della Magistratura per dirigere la Procura della Repubblica di Castrovillari. Facciolla a Cosenza ma anche alla Dda di Catanzaro ha fatto emergere storie importanti che i “marpioni” tenevano nel cassetto. Perseguitato dal terribile duo Spagnuolo-Luberto, è stato fondamentale per farci capire, all’epoca dell’ispezione Lupacchini, il vero volto della “giustizia” cosentina. Poi, è stato riassorbito anche lui dal “sistema”.
E’ sua la firma sul clamoroso caso dell’Istituto Papa Giovanni di Serra D’Aiello dove il presidente della fondazione, don Alfredo Luberto, aveva depredato soldi e beni a suo uso e consumo.
Ma anche l’operazione Twister a Cosenza, che ha fatto tremare i fratelli Gentile e ha portato all’arresto di Pierino Citrigno. Ha lavorato a fondo anche a Paola all’inchiesta “Tela del ragno”.
Facciolla prende in mano una procura che “dorme” da decenni e ha sulla coscienza indagini ridicole sull’omicidio Bergamini e le tante, troppe omissioni sul caso del magistrato Bisceglia, “incidentato” da qualche vecchia volpe dei servizi deviati. Il suo predecessore Giacomantonio non ha certo brillato per spirito di intraprendenza e iniziativa. Ci auguriamo che operi il Facciolla che siamo stati abituati a conoscere.
http://www.iacchite.com - 24/10/2015.
CASTROVILLARI – Si insedierà il 9 novembre il nuovo procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Castrovillari, Eugenio Facciolla.
Il magistrato cosentino, che vanta una lunga ed importante esperienza come sostituto all’interno della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro oltre che come sostituto procuratore a Cosenza, Paola e Rossano, sarà il nuovo procuratore capo nominato all’unanimità nel corso della quinta commissione del Consiglio Superiore della Magistratura per dirigere la Procura della Repubblica di Castrovillari. Facciolla a Cosenza ma anche alla Dda di Catanzaro ha fatto emergere storie importanti che i “marpioni” tenevano nel cassetto. Perseguitato dal terribile duo Spagnuolo-Luberto, è stato fondamentale per farci capire, all’epoca dell’ispezione Lupacchini, il vero volto della “giustizia” cosentina. Poi, è stato riassorbito anche lui dal “sistema”.
E’ sua la firma sul clamoroso caso dell’Istituto Papa Giovanni di Serra D’Aiello dove il presidente della fondazione, don Alfredo Luberto, aveva depredato soldi e beni a suo uso e consumo.
Ma anche l’operazione Twister a Cosenza, che ha fatto tremare i fratelli Gentile e ha portato all’arresto di Pierino Citrigno. Ha lavorato a fondo anche a Paola all’inchiesta “Tela del ragno”.
Facciolla prende in mano una procura che “dorme” da decenni e ha sulla coscienza indagini ridicole sull’omicidio Bergamini e le tante, troppe omissioni sul caso del magistrato Bisceglia, “incidentato” da qualche vecchia volpe dei servizi deviati. Il suo predecessore Giacomantonio non ha certo brillato per spirito di intraprendenza e iniziativa. Ci auguriamo che operi il Facciolla che siamo stati abituati a conoscere.
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Re: VERITA' PER DENIS!
26 anni di silenzio, omertà, depistaggi e ingiustizia
https://www.youtube.com/watch?v=IC3OIRBpEQQ&feature=youtu.be
https://www.youtube.com/watch?v=IC3OIRBpEQQ&feature=youtu.be
Lode a te
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Re: VERITA' PER DENIS!
Denis Bergamini 26 anni dopo: la rabbia è sempre la stessa
Iacchite 18 novembre 2015
Oggi pomeriggio ricorre il 26° anniversario della morte di Denis Bergamini. Il calciatore del Cosenza fu attirato in una trappola mortale dalla sua ex fidanzata Isabella Internò e dai suoi complici, che ormai conosciamo.
Denis è stato ucciso perchè non voleva più saperne di quella ragazza (oggi donna matura e maritata ad un poliziotto) e lei, spietata e senza scrupoli, ha messo in moto la macchina per farlo ammazzare.
La giusta vendetta di una donna abbandonata è sempre non violenta, è molto meno sincera e grezza di altre violenze, più subdola e fine, nel 99% dei casi consiste nel far dimagrire a vista d’occhio tutti gli amici, ancor di più se intimi, dell’egoista che l’ha abbandonata…
Ma se proprio una donna deve uccidere un uomo, allora “usa” un altro uomo, il senso dell’onore o questa roba che gli esseri spermantici chiamano sentimenti.
Lo diceva la stessa Isabella alla moglie di Lucchetti, Tiziana Rota, appena dieci giorni prima della morte di Denis, incontrandola in una pasticceria di Commenda di Rende.
“… Io lo voglio mio. Piuttosto che saperlo di un’altra preferisco che muoia…”.
Eppure non si riesce ad incastrarla, a fargliela pagare. Perchè ancora c’è chi (giudici collusi e corrotti e servi dello stato deviato) protegge questa orribile “mantide”. Più brutta dell’animale che rappresenta in tutto e per tutto.
Non c’è bisogno di aggiungere altro se non il ricordo di ieri di Donata, la sorella di Denis, che per noi cosentini deve rappresentare la nostra coscienza critica. Sempre. Fino a quando quei bastardi e quella bastarda che l’hanno ammazzato non pagheranno le loro colpe. Fino all’ultima goccia.
17-11-1989
tutti in attesa del derby Cosenza-Messina, nessuno avrebbe mai immaginato quello che sarebbe accaduto il giorno dopo, neppure i ” NON VEDO-NON SENTO-NON PARLO” pensavano che dopo 26 anni tu fossi ancora fra noi.
Corri cavallo della giustizia, siamo tutti qui ad attendere quella verità già scritta del tuo fantino.
http://www.iacchite.com/denis-bergamini ... la-stessa/
Iacchite 18 novembre 2015
Oggi pomeriggio ricorre il 26° anniversario della morte di Denis Bergamini. Il calciatore del Cosenza fu attirato in una trappola mortale dalla sua ex fidanzata Isabella Internò e dai suoi complici, che ormai conosciamo.
Denis è stato ucciso perchè non voleva più saperne di quella ragazza (oggi donna matura e maritata ad un poliziotto) e lei, spietata e senza scrupoli, ha messo in moto la macchina per farlo ammazzare.
La giusta vendetta di una donna abbandonata è sempre non violenta, è molto meno sincera e grezza di altre violenze, più subdola e fine, nel 99% dei casi consiste nel far dimagrire a vista d’occhio tutti gli amici, ancor di più se intimi, dell’egoista che l’ha abbandonata…
Ma se proprio una donna deve uccidere un uomo, allora “usa” un altro uomo, il senso dell’onore o questa roba che gli esseri spermantici chiamano sentimenti.
Lo diceva la stessa Isabella alla moglie di Lucchetti, Tiziana Rota, appena dieci giorni prima della morte di Denis, incontrandola in una pasticceria di Commenda di Rende.
“… Io lo voglio mio. Piuttosto che saperlo di un’altra preferisco che muoia…”.
Eppure non si riesce ad incastrarla, a fargliela pagare. Perchè ancora c’è chi (giudici collusi e corrotti e servi dello stato deviato) protegge questa orribile “mantide”. Più brutta dell’animale che rappresenta in tutto e per tutto.
Non c’è bisogno di aggiungere altro se non il ricordo di ieri di Donata, la sorella di Denis, che per noi cosentini deve rappresentare la nostra coscienza critica. Sempre. Fino a quando quei bastardi e quella bastarda che l’hanno ammazzato non pagheranno le loro colpe. Fino all’ultima goccia.
17-11-1989
tutti in attesa del derby Cosenza-Messina, nessuno avrebbe mai immaginato quello che sarebbe accaduto il giorno dopo, neppure i ” NON VEDO-NON SENTO-NON PARLO” pensavano che dopo 26 anni tu fossi ancora fra noi.
Corri cavallo della giustizia, siamo tutti qui ad attendere quella verità già scritta del tuo fantino.
http://www.iacchite.com/denis-bergamini ... la-stessa/
Lode a te
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Re: VERITA' PER DENIS!
Identico mess postato in contemporanea
D'altronde la rabbia ed, appunto, la voglia di giustizia sono enormi
D'altronde la rabbia ed, appunto, la voglia di giustizia sono enormi
ODIO ETERNO AL CALCIO MODERNO!!!