VERITA' PER DENIS!
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Re: VERITA' PER DENIS!
Caso Bergamini, già l'autopsia del '90 smontava il suicidio
Il viso del calciatore del Cosenza senza un graffio ma fu dato credito al trascinamento da parte del camion per 60 metri
12 OTTOBRE 2014 - MILANO
Se questo vi sembra un uomo trascinato da un camion per 60 metri... C’è una foto che parla. C’è una foto che grida. C’è una foto che fa indignare. E’ la foto di Donato Bergamini, un primo piano. Molto stretto. A parte la postura degli occhi, sembra il viso di un addormentato. Con la barba lunga di qualche giorno. Ma quello scatto non è una semplice foto: fa parte della perizia medico legale effettuata nel gennaio 1990 dal professor Francesco Maria Avato, lo stesso che ha contribuito a far riaprire il caso Pantani. Avete letto bene: gennaio 1990. Due mesi dopo la morte del centrocampista del Cosenza
CASO RIAPERTO — La foto è arrivata alla Gazzetta dalla famiglia Bergamini. Sono stati la sorella Donata e il padre Domizio a decidere questo passo. Come mai? Fa capire, più di tante parole, quanto era poco credibile da subito la tesi del suicidio, un suicido raccontato agli inquirenti dai due testimoni presenti sulla Statale 106 nei pressi di Roseto Capo Spulico: Isabella Internò, ex ragazza di Bergamini, e Raffaele Pisano, l’autista del camion. Entrambi sono ora indagati, la Internò per omicidio volontario in concorso, Pisano per falsa testimonianza, nella nuova inchiesta riaperta dalla Procura di Castrovillari nel 2011. Prima di andare avanti nel racconto, serve una spiegazione: la Gazzetta ha deciso di non pubblicare sul giornale la foto. Certo, è un documento di grande importanza e non vìola nessun segreto istruttorio, ma potrebbe urtare la sensibilità di qualche lettore. E’ disponibile nel sito della Gazzetta: prima di visionarla si è avvertiti dei contenuti forti. Insomma, una presa di responsabilità. Precisato questo aspetto, torniamo al racconto: perché quella immagine grida e fa indignare? Seguiteci.
IL SUICIDIO — "Faccio entrare solo il papà a vedere il corpo: è straziato perché è stato trascinato per oltre 60 metri". Così il carabiniere Barbuscio accoglie, dopo un bel po’ di anticamera, i familiari del povero Bergamini il giorno dopo quel maledetto 18 novembre 1989. Hanno viaggiato da Argenta tutta la notte, con un dolore lancinante per la notizia piombata all’ora di cena: l’amato figlio, il calciatore lanciato verso una carriera importante in A, morto in circostanze misteriose. Quando arrivano nella caserma di Roseto Capo Spulico, sanno poche cose. Domizio entra nella stanza, gli fanno vedere solo il viso del figlio: il corpo è coperto da un lenzuolo. Barbuscio gli spiega: «Si è gettato sotto un camion, poi è stato trascinato per quasi 60 metri. Non lo tocchi». Il volto è pulito, tranne un piccolo graffio sulla fronte. Il papà sbotta: "Ma che cosa sta raccontando, ho guidato dei camion di quella portata: se uno ci finisce sotto finisce maciullato. Non può essere andata come dite voi". La battaglia lunga 23 anni inizia quel giorno. Come è stato possibile credere a una versione che faceva acqua da tutte le parti a iniziare da un viso pulito? Come è stato possibile che quel volto senza ferite ispezionato la mattina del 19 novembre anche dal pm di allora, Ottavio Abbate, non abbia instillato neppure il minimo dubbio sul suicidio, dando pieno credito al trascinamento? Ma c’è molto di più.
L’AUTOPSIA — Lasciamo stare i rilievi sballati (con piazzole di sosta spostate di 40 metri) effettuati da Barbuscio nelle ore seguenti al ritrovamento del cadavere (tutti confutati negli anni seguenti), quello che qui ci preme far notare è come si arriva alla foto in questione: con inspiegabile ritardo il pm solo a gennaio decide di far eseguire l’autopsia su Bergamini e ordina la riesumazione del corpo. La perizia è condotta dal professor Avato che scatta una serie di foto fondamentali e fa le sue ipotesi in una consulenza che avrebbe dovuto ripetere durante l’incidente probatorio, diventando una prova da utilizzare in un eventuale processo. Ma questo non accade: Avato non sarà mai sentito, né durante l’incidente probatorio, né al processo del 1991 con Pisano unico imputato (poi assolto) per omicidio colposo. I giudici sentenziano: Bergamini si è gettato sotto il camion. E poco importa se la foto scattata da Avato e la relazione medico-legale suggeriscano altre conclusioni e hanno un nome molto diverso dal suicidio. Il professore fa notare come sia impossibile il trascinamento, come le ferite siano concentrate solo su una parte (il fianco destro) e riconducibili a un sormontamento del camion, vale a dire le ruote fatte passare sopra un corpo steso per terra (e già cadavere come diranno le recenti consulenze, a partire da quella del Ris), Avato per spiegare meglio usa la metafora di un frutto schiacciato ed esploso. E’ quello accaduto alla parte destra del fianco di Bergamini. Ma sul resto del corpo il giocatore non presenta ferite, i vestiti (come dimostrano altre foto scattate sul posto da Barbuscio, immagini che ripubblichiamo) sono intatti, le scarpe ben strette ai piedi, persino le calze sono su. E poi c’è il viso: secondo i testimoni Bergamini si sarebbe buttato a pesce sotto le ruote e poi trascinato. Questo è raccontato agli inquirenti, questo non è mai messo in dubbio nonostante il corpo di uno sfortunato ragazzo dica altro. Gli inquirenti non cambiano idea neppure dopo l’autopsia di Avato. Anzi, quella perizia finisce dimenticata, l’incidente probatorio evaporato.
ATTESA — La foto parla e spiega come mai la famiglia non si sia mai rassegnata. Sta ancora aspettando una risposta: proprio in queste settimane la Procura di Castrovillari sta per chiudere l’inchiesta riaperta nel 2011 (ipotesi omicidio volontario) e condotta dal procuratore capo Franco Giacomantonio e dal pm Maria Grazia Anastasia. Il lavoro del professore Avato è agli atti insieme ad altre novità importanti (consulenze e testimonianze). La tesi del suicidio dopo 25 anni è stata spazzata via dalle nuove indagini. La strada per capire cosa sia accaduto nel 1989 è ancora lunga, ma è arrivata l’ora di capirlo. E magari un giorno qualcuno spiegherà alla famiglia e all’opinione pubblica come mai 25 anni fa sia stato possibile non porsi delle domande guardando un viso di un uomo che doveva essere irriconoscibile, ma aveva solo un graffietto sulla fronte.
Francesco Ceniti
Il viso del calciatore del Cosenza senza un graffio ma fu dato credito al trascinamento da parte del camion per 60 metri
12 OTTOBRE 2014 - MILANO
Se questo vi sembra un uomo trascinato da un camion per 60 metri... C’è una foto che parla. C’è una foto che grida. C’è una foto che fa indignare. E’ la foto di Donato Bergamini, un primo piano. Molto stretto. A parte la postura degli occhi, sembra il viso di un addormentato. Con la barba lunga di qualche giorno. Ma quello scatto non è una semplice foto: fa parte della perizia medico legale effettuata nel gennaio 1990 dal professor Francesco Maria Avato, lo stesso che ha contribuito a far riaprire il caso Pantani. Avete letto bene: gennaio 1990. Due mesi dopo la morte del centrocampista del Cosenza
CASO RIAPERTO — La foto è arrivata alla Gazzetta dalla famiglia Bergamini. Sono stati la sorella Donata e il padre Domizio a decidere questo passo. Come mai? Fa capire, più di tante parole, quanto era poco credibile da subito la tesi del suicidio, un suicido raccontato agli inquirenti dai due testimoni presenti sulla Statale 106 nei pressi di Roseto Capo Spulico: Isabella Internò, ex ragazza di Bergamini, e Raffaele Pisano, l’autista del camion. Entrambi sono ora indagati, la Internò per omicidio volontario in concorso, Pisano per falsa testimonianza, nella nuova inchiesta riaperta dalla Procura di Castrovillari nel 2011. Prima di andare avanti nel racconto, serve una spiegazione: la Gazzetta ha deciso di non pubblicare sul giornale la foto. Certo, è un documento di grande importanza e non vìola nessun segreto istruttorio, ma potrebbe urtare la sensibilità di qualche lettore. E’ disponibile nel sito della Gazzetta: prima di visionarla si è avvertiti dei contenuti forti. Insomma, una presa di responsabilità. Precisato questo aspetto, torniamo al racconto: perché quella immagine grida e fa indignare? Seguiteci.
IL SUICIDIO — "Faccio entrare solo il papà a vedere il corpo: è straziato perché è stato trascinato per oltre 60 metri". Così il carabiniere Barbuscio accoglie, dopo un bel po’ di anticamera, i familiari del povero Bergamini il giorno dopo quel maledetto 18 novembre 1989. Hanno viaggiato da Argenta tutta la notte, con un dolore lancinante per la notizia piombata all’ora di cena: l’amato figlio, il calciatore lanciato verso una carriera importante in A, morto in circostanze misteriose. Quando arrivano nella caserma di Roseto Capo Spulico, sanno poche cose. Domizio entra nella stanza, gli fanno vedere solo il viso del figlio: il corpo è coperto da un lenzuolo. Barbuscio gli spiega: «Si è gettato sotto un camion, poi è stato trascinato per quasi 60 metri. Non lo tocchi». Il volto è pulito, tranne un piccolo graffio sulla fronte. Il papà sbotta: "Ma che cosa sta raccontando, ho guidato dei camion di quella portata: se uno ci finisce sotto finisce maciullato. Non può essere andata come dite voi". La battaglia lunga 23 anni inizia quel giorno. Come è stato possibile credere a una versione che faceva acqua da tutte le parti a iniziare da un viso pulito? Come è stato possibile che quel volto senza ferite ispezionato la mattina del 19 novembre anche dal pm di allora, Ottavio Abbate, non abbia instillato neppure il minimo dubbio sul suicidio, dando pieno credito al trascinamento? Ma c’è molto di più.
L’AUTOPSIA — Lasciamo stare i rilievi sballati (con piazzole di sosta spostate di 40 metri) effettuati da Barbuscio nelle ore seguenti al ritrovamento del cadavere (tutti confutati negli anni seguenti), quello che qui ci preme far notare è come si arriva alla foto in questione: con inspiegabile ritardo il pm solo a gennaio decide di far eseguire l’autopsia su Bergamini e ordina la riesumazione del corpo. La perizia è condotta dal professor Avato che scatta una serie di foto fondamentali e fa le sue ipotesi in una consulenza che avrebbe dovuto ripetere durante l’incidente probatorio, diventando una prova da utilizzare in un eventuale processo. Ma questo non accade: Avato non sarà mai sentito, né durante l’incidente probatorio, né al processo del 1991 con Pisano unico imputato (poi assolto) per omicidio colposo. I giudici sentenziano: Bergamini si è gettato sotto il camion. E poco importa se la foto scattata da Avato e la relazione medico-legale suggeriscano altre conclusioni e hanno un nome molto diverso dal suicidio. Il professore fa notare come sia impossibile il trascinamento, come le ferite siano concentrate solo su una parte (il fianco destro) e riconducibili a un sormontamento del camion, vale a dire le ruote fatte passare sopra un corpo steso per terra (e già cadavere come diranno le recenti consulenze, a partire da quella del Ris), Avato per spiegare meglio usa la metafora di un frutto schiacciato ed esploso. E’ quello accaduto alla parte destra del fianco di Bergamini. Ma sul resto del corpo il giocatore non presenta ferite, i vestiti (come dimostrano altre foto scattate sul posto da Barbuscio, immagini che ripubblichiamo) sono intatti, le scarpe ben strette ai piedi, persino le calze sono su. E poi c’è il viso: secondo i testimoni Bergamini si sarebbe buttato a pesce sotto le ruote e poi trascinato. Questo è raccontato agli inquirenti, questo non è mai messo in dubbio nonostante il corpo di uno sfortunato ragazzo dica altro. Gli inquirenti non cambiano idea neppure dopo l’autopsia di Avato. Anzi, quella perizia finisce dimenticata, l’incidente probatorio evaporato.
ATTESA — La foto parla e spiega come mai la famiglia non si sia mai rassegnata. Sta ancora aspettando una risposta: proprio in queste settimane la Procura di Castrovillari sta per chiudere l’inchiesta riaperta nel 2011 (ipotesi omicidio volontario) e condotta dal procuratore capo Franco Giacomantonio e dal pm Maria Grazia Anastasia. Il lavoro del professore Avato è agli atti insieme ad altre novità importanti (consulenze e testimonianze). La tesi del suicidio dopo 25 anni è stata spazzata via dalle nuove indagini. La strada per capire cosa sia accaduto nel 1989 è ancora lunga, ma è arrivata l’ora di capirlo. E magari un giorno qualcuno spiegherà alla famiglia e all’opinione pubblica come mai 25 anni fa sia stato possibile non porsi delle domande guardando un viso di un uomo che doveva essere irriconoscibile, ma aveva solo un graffietto sulla fronte.
Francesco Ceniti
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Re: VERITA' PER DENIS!
vista la foto, chi ha detto che quel corpo è stato trascinato per 60 metri dovrebbe marcire in altri posti, invece sarà ancora operativo.
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caso Bergamini
Attenzione alle immagini.
http://www.gazzetta.it/Calcio/11-10-201 ... 9727.shtml
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Via Popilia Chè!
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Re: VERITA' PER DENIS!
in realtà qualcuno sta marcendo in altri postiToquinho ha scritto:vista la foto, chi ha detto che quel corpo è stato trascinato per 60 metri dovrebbe marcire in altri posti, invece sarà ancora operativo.
purtroppo in 25 anni hanno smontato tutte le mie convinzioni e, ad oggi, ci affidiamo solo alla giustizia divina
Lode a te
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Re: VERITA' PER DENIS!
C'è qualche piccola inesattezza, ma è veramente molto bello
Denis Bergamini: la vita, il caso
“Suicidare” è un verbo strano. Contiene già al proprio interno il pronome personale latino “sui”, cioè “sé” e il verbo uccidere. Eppure gli si aggiunge abitualmente un altro pronome personale per sottolineare la forma riflessiva, unica coniugazione possibile per quel verbo. “Suicidarsi”, “suicidarmi”, suicidarci”: impersonale, prima persona singolare e prima persona plurale. Prima, persona. Insomma: non puoi proprio dire “io suicido qualcuno”, non è italiano, sarebbe un errore grave in un tema. Un segno rosso sotto la parola. Questa sera Latevidence andrà dietro quel segno rosso, vergato col sangue invece dell’inchiostro, per scoprire che forse qualcuno rese transitivo il verbo “suicidare”. Una quisquiglia grammaticale, infondo. Un segno rosso tracciato da un insegnante invisibile che marca un confine: fra errore e parola corretta. Fra verità e menzogna. Fra vita e morte di Donato Bergamini, per tutti: Denis.
“Papà, chi è Denis Bergamini?”, chiede un bambino di dieci anni vestito da calciatore, appena uscito dallo spogliatoio del campo sportivo di Boccaleone, una manciata di case a sud est di Ferrara. “E’ uno che è morto tanti anni fa”, risponde il padre al bambino, “e questa sera tu giocherai nel torneo che lo ricorda ogni anno”. Ma si sa, i bambini ti sanno inchiodare come solo certi investigatori delle serie tv americane. “E come è morto questo Denis Bergamini?”. Il padre si gratta una tempia, poi si accende una Camel. Guarda nel vuoto. “E’ andato sotto un camion”, fa con tono sbrigativo. “Come è andato sotto un camion? Da solo? O l’ha spinto qualcuno?”. “Ci è finito sotto e basta, ok? Te li sei messi i parastinchi?”, cambia argomento il papà, “allora muoviti che devi andare in campo”. L’uomo osserva il figlio correre in campo con i compagni, butta a terra la sigaretta. E decide che gli basta così.
E’ il 18 novembre 1989. Dieci giorni prima, a Berlino, un muro è caduto sul cadavere di Utopia. L’Unione Sovietica sta esalando gli ultimi sospiri, in Jugoslavia iniziano i primi bollori e i Bin Laden concludono affari con i Bush. Nei cinema Robin Williams sale sulla cattedra e urla “Capitano, mio capitano!”, Mtv trasmette il dissacrante videoclip di Like a prayer di MARONNA, dalle radio italiane escono a ripetizione la Lambada e W la mamma e in Parlamento va in scena la decima legislatura (ovviamente democristiana e ovviamente con Andreotti in prima linea), l’ultima prima di Tangentopoli. Insomma, il 18 novembre 1989 il mondo ha altro da fare anziché occuparsi di ciò che accade a Roseto Capospulico, gran bel posto di mare, in Calabria, dove un promettente calciatore ferrarese vede i propri anni fermarsi sul numero 27. Come una rockstar truffata dai propri eccessi.
Nel 1962, un retaggio legislativo del ventennio fascista impedisce ancora di dare ai bambini un nome straniero. Pertanto, mamma Maria non potrà vedere scritto sui documenti del secondogenito il nome prescelto, Denis. Viene scelto Donato, versione maschile del nome della figlia maggiore. Ma, scartoffie ufficiali a parte, per tutti, quella chioma bionda che scorrazza sui campetti di Boccaleone in estenuanti partite tra amici, risponde al nome di Denis. Boccaleone, paesino nel comune di Argenta appoggiato al fiume Reno, tra le province di Ferrara e Ravenna, terra di Partigiani a un passo dalla Linea Gotica, non ha un settore giovanile nella propria squadra dilettantistica. Così Denis compie tutta la trafila fino alla prima squadra nell’Argentana, squadra di buon livello, poi Imolese e Russi, sempre in Interregionale. Per quel suo modo grintoso e ipercinetico di giocare a centrocampo, gli viene appioppato il soprannome “cavallino”, che lo seguirà per sempre.
In un match contro il Lugo, in tribuna c’è Roberto Ranzani, direttore sportivo del Cosenza, anch’egli ferrarese, accorso a visionare un promettente giocatore. Quest’ultimo non scende in campo, ma Ranzani decide comunque di assistere alla partita. “Mi piace quel biondino, come si chiama?”. Il “cavallino” biondo e instancabile aveva trovato l’uomo del destino. Ranzani lo porta in Calabria, in serie C1, tra i professionisti, per 20 milioni di lire. È la materializzazione di un sogno partito tra i campetti spelacchiati della campagna ferrarese, ma anche l’inizio della carriera da calciatore vero, anche se lontano, lontanissimo da mamma Maria e papà Domizio e dall’amatissima sorella Donata. Privarsi degli affetti, spesso, è il dazio che vengono a riscuotere con prepotenza i propri sogni. Ma l’unico mangime per l’ambizione si chiama sacrificio.
Ad attendere Denis c’è un una città complicata, collocata in uno spicchio di terra claustrofobico, con la Sila a fare la voce grossa in un coro baritonale di dirupi e crepacci. Se lo spazio non è ospitale, lo è ancora meno il tempo. Denis arriva a Cosenza nel 1985, quattro anni dopo la prima guerra di ‘Ndrangheta che sterminò diciannove ragazzi giovanissimi. La città è spaccata in due: da una parte i figli di papà della “Cosenza bene” che affollano Piazza Kennedy e dall’altra i tanti ragazzi spesso spinti nei giri sbagliati da pedate che hanno sembianze di disoccupazione e fame, quella vera. La curva dello stadio San Vito è un’oasi felice per quei figli del popolo, una zona franca dai guai, una camera di decompressione dalla pesantissima aria quotidiana. Denis diviene un beniamino della curva da subito, impressionando per la propria innata generosità.
Non aveva un fisico imponente, anzi: per il ruolo di mediano era piuttosto gracile, lontano da pari ruolo che solo a guardarli incutono timore e suscitano rispetto. Ma il rispetto Denis se lo guadagnava sul campo, tra corse a perdifiato, contrasti impavidi, recuperi disperati sugli avversari e qua e là qualche gol importante. “Era il mio Nedved” dirà un giorno Gianni Di Marzio, il suo allenatore di allora. Il Cosenza vince e convince, trascinato dal suo “Cavallino” con l’otto sulle spalle, ma intorno all’isola felice del San Vito si scatena il finimondo: nell’estate ’86 vengono sgominati i due clan a capo della malavita cosentina con 73 persone arrestate, colpevoli di 28 omicidi, 15 tentati omicidi, rapine, estorsioni e usura. La promozione in serie B della squadra trascinata da Denis, agisce da sedativo per la città, acqua pulita su un incendio che comunque pare impossibile da estinguere.
Nel campionato ’88-’89 il Cosenza è tra le squadre in lotta per approdare addirittura in Serie A, ma dopo un cavalcata culminata da ben 17 vittorie di cui 6 in trasferta, la beffa: la classifica avulsa la esclude dalle promosse nella massima serie. Quell’anno Bergamini disputa soltanto 16 gare per una brutta frattura a una gamba causata in allenamento dal compagno Venturin, ma le buone prestazioni degli ultimi anni gli consentono comunque di essere l’oggetto del desiderio di importanti squadre: lo vogliono il Parma del neo allenatore Nevio Scala e addirittura la Fiorentina, in serie A, nella quale è appena giunto il suo ultimo mister del Cosenza, Bruno Giorgi. Il nuovo tecnico dei calabresi, Gigi Simoni, impone alla presidenza di aumentare l’ingaggio a Denis, il quale, soprattutto per un debito di riconoscenza nei confronti di chi lo ha portato nel grande calcio e lo sta curando da un brutto infortunio, non cede alle lusinghe e resta all’ombra della Sila. Col maledetto senno di poi, questa scelta di cuore gli costerà la vita.
Il 12 novembre ’89, il Cosenza esce dal campo di Monza dopo un brutto 1-1. Il padre di Denis, Domizio, è in tribuna e anni dopo rivelerà: “In quella gara i compagni di Denis mi diedero la sensazione di non impegnarsi. Ne parlai con lui che mi rispose ‘Tranquillo babbo, tanto il prossimo anno vengo via’. Aveva maturato la decisione di cambiare aria”. La settimana seguente è in programma il sentitissimo derby con il Messina. Sabato 18 novembre, l’allenamento di rifinitura dei rossoblù comincia con episodio strano: Denis trova in campo una civetta morta. I celti la chiamavano “uccello cadavere”, in Cina ed Egitto era in passato associata alle forze del male, per gli Indù è l’emblema del dio Yama, il Signore dei morti. Denis, la prende e la lancia fuori dal campo, scherzandoci su. Poi, sempre lui, organizza per la sera stessa una grigliata a casa del mister Simoni per fare gruppo e caricarsi in vista del match contro il Messina. Senza badare a quella inquietante civetta, senza cogliere nessun presagio.
La strada statale jonica 106 è una corda schizofrenica tra Taranto e Reggio Calabria concepita nel 1935. Alle ore 19,30 di quel 18 novembre ’89, in corrispondenza del kilometro 401, all’altezza di Roseto Capospulico, c’è un camion Fiat Iveco 180 rosso targato Reggio Calabria fermo con 138 quintali di mandarini nel rimorchio. A pochi centimetri dalle sue ruote c’è un corpo prono sull’asfalto. Ha la testa verso il centro della strada e i piedi in direzione del guard-rail. I capelli biondi sono pettinati, il gilet non ha una piega, le calze sono tirate su, le scarpe sono pulite nonostante piova da ore. Al polso, l’orologio è ancora funzionante. Intorno al corpo c’è una pozza di sangue senza la minima impronta di pneumatici. È il cadavere di Denis Bergamini, a pochi metri, la sua Maserati targata Ferrara. Il “cavallino” biondo col numero otto sulle spalle ha terminato la sua corsa. Per sempre.
“Mi è sbucato davanti all’improvviso, non ho potuto far nulla per evitarlo. L’ho trascinato sotto le ruote per una cinquantina di metri prima di riuscire a fermarmi. Appena sono sceso mi ha raggiunto una ragazza che mi ha detto: ‘E’ il mio fidanzato e si è voluto suicidare’, poi è salita su un’auto di passaggio e se n’è andata verso Roseto Marina” è la dichiarazione del camionista Raffaele Pisano al brigadiere Barbuscio, accorso sul posto. La ragazza che nomina è Isabella Internò, studentessa ventenne di Cosenza, fidanzata di Denis tra l’’85 e l’’88. Il brigadiere la trova in un ristorante. Isabella racconta dell’incontro voluto da Denis per salutarla prima di imbarcarsi a Taranto, “voleva andarsene dal calcio e dall’Italia, parlava di Amazzonia a Hawaii” dice Isabella e poi prosegue “abbiamo discusso nell’auto ferma in una piazzola di sosta, poi Denis mi ha detto di tornare a Cosenza con la sua auto perché lui avrebbe proseguito in autostop. È sceso e si è gettato sotto il camion con un tuffo in avanti come se si stesse tuffando in una piscina”.
Punto primo: l’autista dice di averlo visto spuntare e la ragazza parla invece di un tuffo plastico. Secondo: la piazzola di sosta è sconnessa e fangosa e non c’è un segno delle ruote della Maserati di Denis. Terzo: nelle tasche di Denis vengono trovati contanti per 767 mila lire e un assegno post-datato del Cosenza Calcio da circa 9 milioni di lire non incassabile all’estero. Quarto: dal conto in banca di Denis non è stato prelevato nulla: perché non farlo se aveva intenzione di andare in Amazzonia o alle Hawaii? Quinto: a Taranto non si imbarcano i civili. E sesto: nel comodino della stanza che Denis divideva con il compagno Michele Padovano vengono trovati alcuni biglietti di auguri natalizi. Papà Domizio, mamma Maria e la sorella Donata, una volta avvisati, giungono sul posto al mattino di domenica 19 novembre. Il brigadiere Barbuscio impone di incontrare solo il padre Domizio, a quattr’occhi, e gli snocciola la versione di Pisano e della Internò, verbalizzata in forma ufficiale. Ma Domizio Bergamini non è tipo semplice da ingannare e capisce subito che il conto proprio non torna. E il conto è salatissimo: è la vita del proprio figlio.
Le incongruenze che Domizio fa notare a Barbuscio vengono liquidate frettolosamente e fermamente dal brigadiere. I sospetti si fanno macigni indigeribili quando il procuratore Abbate dispone che il riconoscimento del cadavere di Denis venga eseguito da Serra e Ranzani – ovvero presidente e direttore sportivo del Cosenza Calcio – e non dalla famiglia. La madre Maria dirà “ci hanno concesso di vedere solo il volto, scoprendo il lenzuolo: era intatto, quasi sorridente. Non poteva essere il viso di una persona trascinata da un camion per 60 metri”. Il presidente Serra preme sul padre perché non richieda l’autopsia e Domizio accetta pur di portare il corpo di Denis a casa il prima possibile. Quando però telefona all’obitorio per richiedere i vestiti del figlio, gli viene risposto che sarebbero stati bruciati all’inceneritore, poi, dopo aver chiesto di conservarli dicendo che sarebbe partito subito per recuperarli, viene seccamente liquidato, “no, mi sono sbagliato, può risparmiarsi il viaggio, tanto li abbiamo già bruciati”.
Con chi ha parlato Denis dal telefono della casa natale a Boccaleone il giorno dopo Monza-Cosenza tornando a tavola con la famiglia stravolto, sudato e ammutolito? Perché in un’altra telefonata con Roberta, suo nuova fidanzata, dice “c’è qualcuno che mi vuole male, ma io non ho mai fatto nulla, a parte lasciare Isabella”? Forse lasciando Isabella Internò ha compiuto inconsapevolmente un torto a qualcuno? E perché durante l’abituale film visto alla sala Garden coi compagni durante il ritiro pre derby col Messina, si è allontanato dal cinema appena si sono spente le luci per non tornare più, abbandonando di fatto il ritiro e trasgredendo così a una ferrea regola professionale che non aveva mai violato in tutta la carriera? E soprattutto: perché tutti questi elementi non sono stati considerati nell’indagine?
Nel ’94 la Questura di Cosenza chiede la riapertura del caso, ma il Pm archivia il caso per assenza di nuovi elementi prima ancora che la Questura ottenga le intercettazioni telefoniche richieste. A distanza di anni la trasmissione “Chi l’ha visto?” rivela foto inedite del tir poco dopo la morte di Denis che evidenziano macchie di sangue sul paraurti e sul predellino: ma tali macchie di sangue non corrispondono a nessuna ferita sul corpo di Denis. Di chi era quel sangue? O meglio: chi lo aveva spalmato sul camion? Le possibili risposte sono state demolite nel 2007 insieme all’autocarro. Nel 2011 una lettera anonima arrivata all’Ordine degli Avvocati di Ferrara fornisce nuovi elementi sui rapporti tra Denis, Isabella e, testuale, “altri personaggi limitrofi”. Ma la svolta è del 22 febbraio 2012 quando il Ris di Messina sconfessa la tesi del suicidio analizzando le ferite sul cadavere “inferte con il corpo già a terra”. Nel 2013 Isabella Internò e il camionista Raffaele Pisano ricevono un avviso di garanzia per concorso in omicidio volontario. Interrogati in aula, i due si avvalgono della facoltà di non rispondere. Chi ha ucciso Denis Bergamini? E perché? La botola è stata faticosamente scoperchiata. Ciò che nasconde è tutto da scoprire, ma quel che è certo è che fa paura a tante, troppe persone.
http://pedrinicantastorie.wordpress.com ... tevidence/
Denis Bergamini: la vita, il caso
“Suicidare” è un verbo strano. Contiene già al proprio interno il pronome personale latino “sui”, cioè “sé” e il verbo uccidere. Eppure gli si aggiunge abitualmente un altro pronome personale per sottolineare la forma riflessiva, unica coniugazione possibile per quel verbo. “Suicidarsi”, “suicidarmi”, suicidarci”: impersonale, prima persona singolare e prima persona plurale. Prima, persona. Insomma: non puoi proprio dire “io suicido qualcuno”, non è italiano, sarebbe un errore grave in un tema. Un segno rosso sotto la parola. Questa sera Latevidence andrà dietro quel segno rosso, vergato col sangue invece dell’inchiostro, per scoprire che forse qualcuno rese transitivo il verbo “suicidare”. Una quisquiglia grammaticale, infondo. Un segno rosso tracciato da un insegnante invisibile che marca un confine: fra errore e parola corretta. Fra verità e menzogna. Fra vita e morte di Donato Bergamini, per tutti: Denis.
“Papà, chi è Denis Bergamini?”, chiede un bambino di dieci anni vestito da calciatore, appena uscito dallo spogliatoio del campo sportivo di Boccaleone, una manciata di case a sud est di Ferrara. “E’ uno che è morto tanti anni fa”, risponde il padre al bambino, “e questa sera tu giocherai nel torneo che lo ricorda ogni anno”. Ma si sa, i bambini ti sanno inchiodare come solo certi investigatori delle serie tv americane. “E come è morto questo Denis Bergamini?”. Il padre si gratta una tempia, poi si accende una Camel. Guarda nel vuoto. “E’ andato sotto un camion”, fa con tono sbrigativo. “Come è andato sotto un camion? Da solo? O l’ha spinto qualcuno?”. “Ci è finito sotto e basta, ok? Te li sei messi i parastinchi?”, cambia argomento il papà, “allora muoviti che devi andare in campo”. L’uomo osserva il figlio correre in campo con i compagni, butta a terra la sigaretta. E decide che gli basta così.
E’ il 18 novembre 1989. Dieci giorni prima, a Berlino, un muro è caduto sul cadavere di Utopia. L’Unione Sovietica sta esalando gli ultimi sospiri, in Jugoslavia iniziano i primi bollori e i Bin Laden concludono affari con i Bush. Nei cinema Robin Williams sale sulla cattedra e urla “Capitano, mio capitano!”, Mtv trasmette il dissacrante videoclip di Like a prayer di MARONNA, dalle radio italiane escono a ripetizione la Lambada e W la mamma e in Parlamento va in scena la decima legislatura (ovviamente democristiana e ovviamente con Andreotti in prima linea), l’ultima prima di Tangentopoli. Insomma, il 18 novembre 1989 il mondo ha altro da fare anziché occuparsi di ciò che accade a Roseto Capospulico, gran bel posto di mare, in Calabria, dove un promettente calciatore ferrarese vede i propri anni fermarsi sul numero 27. Come una rockstar truffata dai propri eccessi.
Nel 1962, un retaggio legislativo del ventennio fascista impedisce ancora di dare ai bambini un nome straniero. Pertanto, mamma Maria non potrà vedere scritto sui documenti del secondogenito il nome prescelto, Denis. Viene scelto Donato, versione maschile del nome della figlia maggiore. Ma, scartoffie ufficiali a parte, per tutti, quella chioma bionda che scorrazza sui campetti di Boccaleone in estenuanti partite tra amici, risponde al nome di Denis. Boccaleone, paesino nel comune di Argenta appoggiato al fiume Reno, tra le province di Ferrara e Ravenna, terra di Partigiani a un passo dalla Linea Gotica, non ha un settore giovanile nella propria squadra dilettantistica. Così Denis compie tutta la trafila fino alla prima squadra nell’Argentana, squadra di buon livello, poi Imolese e Russi, sempre in Interregionale. Per quel suo modo grintoso e ipercinetico di giocare a centrocampo, gli viene appioppato il soprannome “cavallino”, che lo seguirà per sempre.
In un match contro il Lugo, in tribuna c’è Roberto Ranzani, direttore sportivo del Cosenza, anch’egli ferrarese, accorso a visionare un promettente giocatore. Quest’ultimo non scende in campo, ma Ranzani decide comunque di assistere alla partita. “Mi piace quel biondino, come si chiama?”. Il “cavallino” biondo e instancabile aveva trovato l’uomo del destino. Ranzani lo porta in Calabria, in serie C1, tra i professionisti, per 20 milioni di lire. È la materializzazione di un sogno partito tra i campetti spelacchiati della campagna ferrarese, ma anche l’inizio della carriera da calciatore vero, anche se lontano, lontanissimo da mamma Maria e papà Domizio e dall’amatissima sorella Donata. Privarsi degli affetti, spesso, è il dazio che vengono a riscuotere con prepotenza i propri sogni. Ma l’unico mangime per l’ambizione si chiama sacrificio.
Ad attendere Denis c’è un una città complicata, collocata in uno spicchio di terra claustrofobico, con la Sila a fare la voce grossa in un coro baritonale di dirupi e crepacci. Se lo spazio non è ospitale, lo è ancora meno il tempo. Denis arriva a Cosenza nel 1985, quattro anni dopo la prima guerra di ‘Ndrangheta che sterminò diciannove ragazzi giovanissimi. La città è spaccata in due: da una parte i figli di papà della “Cosenza bene” che affollano Piazza Kennedy e dall’altra i tanti ragazzi spesso spinti nei giri sbagliati da pedate che hanno sembianze di disoccupazione e fame, quella vera. La curva dello stadio San Vito è un’oasi felice per quei figli del popolo, una zona franca dai guai, una camera di decompressione dalla pesantissima aria quotidiana. Denis diviene un beniamino della curva da subito, impressionando per la propria innata generosità.
Non aveva un fisico imponente, anzi: per il ruolo di mediano era piuttosto gracile, lontano da pari ruolo che solo a guardarli incutono timore e suscitano rispetto. Ma il rispetto Denis se lo guadagnava sul campo, tra corse a perdifiato, contrasti impavidi, recuperi disperati sugli avversari e qua e là qualche gol importante. “Era il mio Nedved” dirà un giorno Gianni Di Marzio, il suo allenatore di allora. Il Cosenza vince e convince, trascinato dal suo “Cavallino” con l’otto sulle spalle, ma intorno all’isola felice del San Vito si scatena il finimondo: nell’estate ’86 vengono sgominati i due clan a capo della malavita cosentina con 73 persone arrestate, colpevoli di 28 omicidi, 15 tentati omicidi, rapine, estorsioni e usura. La promozione in serie B della squadra trascinata da Denis, agisce da sedativo per la città, acqua pulita su un incendio che comunque pare impossibile da estinguere.
Nel campionato ’88-’89 il Cosenza è tra le squadre in lotta per approdare addirittura in Serie A, ma dopo un cavalcata culminata da ben 17 vittorie di cui 6 in trasferta, la beffa: la classifica avulsa la esclude dalle promosse nella massima serie. Quell’anno Bergamini disputa soltanto 16 gare per una brutta frattura a una gamba causata in allenamento dal compagno Venturin, ma le buone prestazioni degli ultimi anni gli consentono comunque di essere l’oggetto del desiderio di importanti squadre: lo vogliono il Parma del neo allenatore Nevio Scala e addirittura la Fiorentina, in serie A, nella quale è appena giunto il suo ultimo mister del Cosenza, Bruno Giorgi. Il nuovo tecnico dei calabresi, Gigi Simoni, impone alla presidenza di aumentare l’ingaggio a Denis, il quale, soprattutto per un debito di riconoscenza nei confronti di chi lo ha portato nel grande calcio e lo sta curando da un brutto infortunio, non cede alle lusinghe e resta all’ombra della Sila. Col maledetto senno di poi, questa scelta di cuore gli costerà la vita.
Il 12 novembre ’89, il Cosenza esce dal campo di Monza dopo un brutto 1-1. Il padre di Denis, Domizio, è in tribuna e anni dopo rivelerà: “In quella gara i compagni di Denis mi diedero la sensazione di non impegnarsi. Ne parlai con lui che mi rispose ‘Tranquillo babbo, tanto il prossimo anno vengo via’. Aveva maturato la decisione di cambiare aria”. La settimana seguente è in programma il sentitissimo derby con il Messina. Sabato 18 novembre, l’allenamento di rifinitura dei rossoblù comincia con episodio strano: Denis trova in campo una civetta morta. I celti la chiamavano “uccello cadavere”, in Cina ed Egitto era in passato associata alle forze del male, per gli Indù è l’emblema del dio Yama, il Signore dei morti. Denis, la prende e la lancia fuori dal campo, scherzandoci su. Poi, sempre lui, organizza per la sera stessa una grigliata a casa del mister Simoni per fare gruppo e caricarsi in vista del match contro il Messina. Senza badare a quella inquietante civetta, senza cogliere nessun presagio.
La strada statale jonica 106 è una corda schizofrenica tra Taranto e Reggio Calabria concepita nel 1935. Alle ore 19,30 di quel 18 novembre ’89, in corrispondenza del kilometro 401, all’altezza di Roseto Capospulico, c’è un camion Fiat Iveco 180 rosso targato Reggio Calabria fermo con 138 quintali di mandarini nel rimorchio. A pochi centimetri dalle sue ruote c’è un corpo prono sull’asfalto. Ha la testa verso il centro della strada e i piedi in direzione del guard-rail. I capelli biondi sono pettinati, il gilet non ha una piega, le calze sono tirate su, le scarpe sono pulite nonostante piova da ore. Al polso, l’orologio è ancora funzionante. Intorno al corpo c’è una pozza di sangue senza la minima impronta di pneumatici. È il cadavere di Denis Bergamini, a pochi metri, la sua Maserati targata Ferrara. Il “cavallino” biondo col numero otto sulle spalle ha terminato la sua corsa. Per sempre.
“Mi è sbucato davanti all’improvviso, non ho potuto far nulla per evitarlo. L’ho trascinato sotto le ruote per una cinquantina di metri prima di riuscire a fermarmi. Appena sono sceso mi ha raggiunto una ragazza che mi ha detto: ‘E’ il mio fidanzato e si è voluto suicidare’, poi è salita su un’auto di passaggio e se n’è andata verso Roseto Marina” è la dichiarazione del camionista Raffaele Pisano al brigadiere Barbuscio, accorso sul posto. La ragazza che nomina è Isabella Internò, studentessa ventenne di Cosenza, fidanzata di Denis tra l’’85 e l’’88. Il brigadiere la trova in un ristorante. Isabella racconta dell’incontro voluto da Denis per salutarla prima di imbarcarsi a Taranto, “voleva andarsene dal calcio e dall’Italia, parlava di Amazzonia a Hawaii” dice Isabella e poi prosegue “abbiamo discusso nell’auto ferma in una piazzola di sosta, poi Denis mi ha detto di tornare a Cosenza con la sua auto perché lui avrebbe proseguito in autostop. È sceso e si è gettato sotto il camion con un tuffo in avanti come se si stesse tuffando in una piscina”.
Punto primo: l’autista dice di averlo visto spuntare e la ragazza parla invece di un tuffo plastico. Secondo: la piazzola di sosta è sconnessa e fangosa e non c’è un segno delle ruote della Maserati di Denis. Terzo: nelle tasche di Denis vengono trovati contanti per 767 mila lire e un assegno post-datato del Cosenza Calcio da circa 9 milioni di lire non incassabile all’estero. Quarto: dal conto in banca di Denis non è stato prelevato nulla: perché non farlo se aveva intenzione di andare in Amazzonia o alle Hawaii? Quinto: a Taranto non si imbarcano i civili. E sesto: nel comodino della stanza che Denis divideva con il compagno Michele Padovano vengono trovati alcuni biglietti di auguri natalizi. Papà Domizio, mamma Maria e la sorella Donata, una volta avvisati, giungono sul posto al mattino di domenica 19 novembre. Il brigadiere Barbuscio impone di incontrare solo il padre Domizio, a quattr’occhi, e gli snocciola la versione di Pisano e della Internò, verbalizzata in forma ufficiale. Ma Domizio Bergamini non è tipo semplice da ingannare e capisce subito che il conto proprio non torna. E il conto è salatissimo: è la vita del proprio figlio.
Le incongruenze che Domizio fa notare a Barbuscio vengono liquidate frettolosamente e fermamente dal brigadiere. I sospetti si fanno macigni indigeribili quando il procuratore Abbate dispone che il riconoscimento del cadavere di Denis venga eseguito da Serra e Ranzani – ovvero presidente e direttore sportivo del Cosenza Calcio – e non dalla famiglia. La madre Maria dirà “ci hanno concesso di vedere solo il volto, scoprendo il lenzuolo: era intatto, quasi sorridente. Non poteva essere il viso di una persona trascinata da un camion per 60 metri”. Il presidente Serra preme sul padre perché non richieda l’autopsia e Domizio accetta pur di portare il corpo di Denis a casa il prima possibile. Quando però telefona all’obitorio per richiedere i vestiti del figlio, gli viene risposto che sarebbero stati bruciati all’inceneritore, poi, dopo aver chiesto di conservarli dicendo che sarebbe partito subito per recuperarli, viene seccamente liquidato, “no, mi sono sbagliato, può risparmiarsi il viaggio, tanto li abbiamo già bruciati”.
Con chi ha parlato Denis dal telefono della casa natale a Boccaleone il giorno dopo Monza-Cosenza tornando a tavola con la famiglia stravolto, sudato e ammutolito? Perché in un’altra telefonata con Roberta, suo nuova fidanzata, dice “c’è qualcuno che mi vuole male, ma io non ho mai fatto nulla, a parte lasciare Isabella”? Forse lasciando Isabella Internò ha compiuto inconsapevolmente un torto a qualcuno? E perché durante l’abituale film visto alla sala Garden coi compagni durante il ritiro pre derby col Messina, si è allontanato dal cinema appena si sono spente le luci per non tornare più, abbandonando di fatto il ritiro e trasgredendo così a una ferrea regola professionale che non aveva mai violato in tutta la carriera? E soprattutto: perché tutti questi elementi non sono stati considerati nell’indagine?
Nel ’94 la Questura di Cosenza chiede la riapertura del caso, ma il Pm archivia il caso per assenza di nuovi elementi prima ancora che la Questura ottenga le intercettazioni telefoniche richieste. A distanza di anni la trasmissione “Chi l’ha visto?” rivela foto inedite del tir poco dopo la morte di Denis che evidenziano macchie di sangue sul paraurti e sul predellino: ma tali macchie di sangue non corrispondono a nessuna ferita sul corpo di Denis. Di chi era quel sangue? O meglio: chi lo aveva spalmato sul camion? Le possibili risposte sono state demolite nel 2007 insieme all’autocarro. Nel 2011 una lettera anonima arrivata all’Ordine degli Avvocati di Ferrara fornisce nuovi elementi sui rapporti tra Denis, Isabella e, testuale, “altri personaggi limitrofi”. Ma la svolta è del 22 febbraio 2012 quando il Ris di Messina sconfessa la tesi del suicidio analizzando le ferite sul cadavere “inferte con il corpo già a terra”. Nel 2013 Isabella Internò e il camionista Raffaele Pisano ricevono un avviso di garanzia per concorso in omicidio volontario. Interrogati in aula, i due si avvalgono della facoltà di non rispondere. Chi ha ucciso Denis Bergamini? E perché? La botola è stata faticosamente scoperchiata. Ciò che nasconde è tutto da scoprire, ma quel che è certo è che fa paura a tante, troppe persone.
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Re: VERITA' PER DENIS!
L’ANNIVERSARIO
Bergamini, 25 anni di misteri e bugie
Tutti i punti dubbi sulla sua morte
Denis, calciatore del Cosenza,fu trovato morto davanti a un camion il 18 novembre del 1989. Suicidio, si disse per anni. Ora sta per chiudersi la nuova inchiesta: per omicidio
di Angela Geraci (CORRIERE DELLA SERA ONLINE DI OGGI)
C’è un orologio che continua a ticchettare in una casa di Boccaleone di Argenta (Ferrara) da venticinque anni. È in perfette condizioni: la cassa dorata lucida, il quadrante senza un graffio, il cinturino in pelle marrone liscio e intatto. Le lancette girano, imperterrite, dentro il cassetto di Donata e scandiscono il tempo che passa senza giustizia per suo fratello Donato, Denis come lo chiamavano tutti. Quell’orologio, infatti, racconta la storia di una morte mai spiegata, lasciata – per scelta, interesse e incuria di qualcuno – senza spiegazioni. Anzi, sepolta da una montagna di bugie. Denis Bergamini ce l’aveva al polso la sera piovosa del 18 novembre del 1989 quando venne trovato morto sul ciglio della Statale Jonica 106 al chilometro 401 vicino a Roseto Capo Spulico, a 100 chilometri da Cosenza. Il corpo del ragazzo, centrocampista del Cosenza di 27 anni, era a pancia in giù sull’asfalto, davanti alle ruote di un camion carico di mandarini che pesava 138 quintali.
L’autista, Raffaele Pisano, raccontò subito di aver investito Denis, di non essere riuscito a frenare e di averlo trascinato «per quasi una cinquantina di metri» sotto il suo gigantesco mezzo. Per 59 metri, precisarono e misero a verbale i carabinieri arrivati sul posto. Denis, disse immediatamente il camionista, si era buttato volontariamente tra le ruote del suo Fiat Iveco 180 e c’era un’altra persona che lo aveva visto e poteva testimoniare: Isabella Internò, la ex fidanzata del ragazzo che era insieme a lui proprio in quel momento. «Si è voluto suicidare», furono le prime parole che la 20enne rivolse all’autista del camion. «Si è buttato sotto le ruote tuffandosi nella stessa posa che si usa quando si fanno i tuffi in piscina: le braccia protese in avanti, la testa leggermente reclinata in avanti, il corpo teso orizzontalmente», dichiarò poi davanti al sostituto procuratore Ottavio Abbate.
Nessuno, venticinque anni fa, si volle soffermare sul fatto che sul corpo del calciatore non ci fosse alcun segno compatibile con la dinamica raccontata. Un corpo stritolato per metri tra l’asfalto e la mole di un mezzo così pesante sarebbe dovuto essere maciullato, con i vestiti quantomeno stracciati in qualche punto. Invece quelle mani «protese in avanti» non avevano un graffio. Così come i piedi, le gambe, le spalle, il volto di Denis (su cui c’era solo una piccola abrasione sulla fronte, vicino all’attaccatura dei capelli sul lato sinistro). I suoi vestiti erano intatti: il gilet di raso, la camicia, i pantaloni, le scarpe di pelle, i calzini a losanghe ancora perfettamente tirati su sul polpaccio. E quell’orologio da polso integro e funzionante. L’unica ferita, grave, era all’altezza del bacino. Denis Bergamini di certo non è stato investito e trascinato come hanno raccontato i testimoni e come è stato avallato dai carabinieri e dai due gradi di giudizio che nei primi anni Novanta hanno assolto il camionista dall’accusa di omicidio colposo. Quella sera di venticinque anni fa le cose non sono andate così come sono state ricostruite. Adesso si sta per chiudere l’inchiesta riaperta nel 2011 dalla procura di Castrovillari, grazie alla tenacia della famiglia Bergamini e al lavoro del loro avvocato Eugenio Gallerani: l’ipotesi di reato, questa volta, è omicidio volontario. Ci sono almeno due indagati: Isabella, per concorso in omicidio, e l’autista del camion per false dichiarazioni ai pm. Ecco, punto per punto, i principali elementi che non tornano in questa vicenda resa difficile dalle menzogne e dal passare degli anni, ma che complicata, in fondo, non doveva essere.
1. La macchina di Denis
Il rapporto scritto dal brigadiere Francesco Barbuscio, il comandante della stazione dei carabinieri di Roseto Capo Spulico arrivato sul luogo dell’“incidente” alle 19,30, contiene una macroscopica incongruenza a proposito della macchina di Bergamini, una Maserati bianca. Nel testo del militare si legge che «sul luogo del sinistro […] l’autocarro era preceduto dall’auto». Quell’auto che, precisa il carabiniere, lui stesso aveva fermato a un posto di blocco due ore prima: a bordo c’erano un ragazzo e una ragazza. Non vedendo la giovane, il brigadiere chiede al camionista dove sia finita e gli viene detto che «con un automobilista di passaggio si era recata a Roseto forse per avvertire i congiunti». Allora Barbuscio scrive di essere andato in paese e di aver trovato vicino a un bar «la ragazza che prendeva posto sulla Maserati di cui sopra». In poche righe la macchina della vittima cambia di posto e si trova contemporaneamente in due luoghi diversi. Ma nessuno ci fa caso. E c’è di più: dagli ordini di servizio in cui i carabinieri registrano tutte le loro attività è sparita proprio la nota, allegato B, con l’elenco delle auto fermate dalle 17 in poi di quel pomeriggio al posto di blocco. C’è poi un altro punto oscuro: Barbuscio scrive di essere stato avvisato che «c’era un morto in mezzo alla strada» dai carabinieri di Rocca Imperiale, un paese vicino, per telefono. Ma chi ha avvisato i carabinieri? Finora non si è mai saputo. Si sa invece che più volte, dopo la morte di Denis, Isabella ha telefonato ai suoi familiari chiedendo che le fosse data la Maserati che Bergamini aveva comprato poco prima da un parente di un dirigente del Cosenza: «Lui me l’aveva promessa in eredità», sosteneva.
2. L’accompagnatore misterioso
Isabella era insieme a Denis quel pomeriggio, anche se (dopo una storia complicata durata quattro anni tra alti e bassi) non stavano più insieme da un paio mesi, ed è la testimone numero uno di quanto accaduto. Al sostituto procuratore dice di aver «chiesto a un ragazzo che si era fermato e aveva una macchina bianca di accompagnarmi a telefonare per chiedere aiuto». Arrivati al bar del paese lei telefona alla madre (e anche alla società del Cosenza e a un giocatore, Marino) mentre «il ragazzo che mi aveva accompagnato telefonò ai carabinieri». Ma i militari sono già sul posto visto che, come dice il brigadiere, sono stati avvisati dai colleghi e Isabella sulla Statale 106 non c’è. Il proprietario del bar, Mario Infantino, dichiara invece che la ragazza arriva nel suo locale insieme a un signore e che, mentre lei parla al telefono, questa persona gli dice di aver lasciato la sua auto sul luogo dell’incidente con dentro la moglie incinta. Per accompagnare Isabella il signore ha usato la Maserati di Denis e poi sempre con quella, dichiara il barista, è tornato dalla moglie lasciando la ragazza nel bar. Come è arrivata davvero Isabella al bar? E come mai l’accompagnatore non si è mai fatto avanti, allora e in tutti questi anni (né lui né l’ipotetica moglie incinta)? Adesso sembra che l’uomo sia stato identificato e ascoltato dagli inquirenti.
3. In viaggio da Taranto
Isabella ha raccontato che quel giorno Denis la passa a prendere in auto sotto casa intorno alle 16. Iniziano a dirigersi verso Taranto e alle 17,30 vengono fermati al posto di blocco dei carabinieri di Roseto. Rimarranno due ore a discutere nella piazzola di sosta vicino a dove sarà trovato il calciatore. Di cosa? Lui voleva lasciare il mondo del calcio e partire per l’estero, Amazzonia o Hawaii. Strano visto che non aveva con sé denaro a sufficienza per una fuga né valigie né passaporto o carta di identità. E poi dal porto di Taranto non ci si imbarca per nessuna destinazione: partono solo merci. Ma quindi, dunque, aveva deciso di scappare o voleva suicidarsi? E se voleva uccidersi perché farlo a 100 chilometri da Cosenza e davanti a una ex fidanzata? Oltretutto il giorno prima di un’importante partita che lui ci teneva a giocare? La domenica il suo Cosenza, salito in serie B l’anno prima e in cui lui stava da quattro anni, doveva affrontare il Messina: Bergamini si era allenato sabato mattina ed era in ritiro con la squadra. «Il calcio era la sua vita – racconta la sorella Donata – e non era mai mancato a un allenamento, anche quando giocava nelle serie minori». Che Bergamini fosse un professionista serio e preciso è stato sempre confermato da tutti: dalla società sportiva, dai suoi compagni di squadra, dall’allenatore.
4. I segni sul corpo
Che Denis non sia stato investito e trascinato per 59 metri dal camion lo capiscono subito sia i tifosi del Cosenza che si precipitano all’obitorio di Trebisacce non appena si diffonde la notizia, sia la famiglia del calciatore che riesce a vedere il corpo la mattina successiva, dopo una notte di viaggio in macchina da Ferrara alla città calabrese. Ai parenti del calciatore, il brigadiere Barbuscio dice che il ragazzo è inguardabile, «distrutto». «Mi ero preparata a vederlo “ammaccato” – ricorda oggi la sorella – ma quando lo vidi in faccia rimasi stordita e scioccata: sembrava che dormisse, notai solo una piccola macchia rotonda grigio-azzurra sulla fronte». L’autopsia non viene fatta subito. Ci sono i funerali a Cosenza (a cui partecipano 8mila persone), poi Denis viene riportato ad Argenta per un’altra funzione religiosa e per essere sepolto. Due mesi dopo, nel gennaio del 1990, viene riesumato e finalmente si fa l’autopsia: 25 pagine in cui il professor Francesco Maria Avato riporta quello che vede (LEGGI LA PERIZIA IN PDF). Risultano «indenni le cosce, le ginocchia, le gambe, i piedi», «gli arti superiori» sono anch’essi «indenni da lesioni», «la teca cranica appare integra». Intorno al collo, «indenne» pure quello, non c’è alcun segno eppure Denis indossava una collanina d’oro (restituita alla sorella dai carabinieri insieme all’orologio e al portafoglio) che avrebbe dovuto lasciare qualche traccia nel trascinamento. Il professore spiega anche che nei casi di investimenti ci sono cinque fasi contraddistinte da lesioni tipiche ma su Bergamini non ci sono tutti questi traumi: c’è solo una «lesività di tipo addominale», gli è stato schiacciato il fianco sul lato destro. Cioè il lato opposto a quello che, stando alla ricostruzione, sarebbe dovuto essere stato colpito dal camion. È verosimile dunque, si legge poi nell’autopsia, «l’ipotesi di schiacciamento da parte di un unico pneumatico del corpo disteso al suolo», un «arrotamento parziale» connesso a un «mezzo pesante dotato di moto “lento”» che ha causato «lesioni da scoppio». Denis è morto in poche decine di secondi per l’emorragia, schiacciato da un camion che gli è salito in parte sul fianco mentre lui era steso a pancia in su. Questo dicono quelle 25 pagine messe da parte e dimenticate per anni. Il professore Avato non è stato mai ascoltato durante il processo all’autista.
5.Il camion
Il camion viene sottoposto a un tipo di sequestro particolare: è lasciato in uso al signor Pisano che quindi risale a bordo e se ne va. Nessuno esaminò quindi il mezzo che aveva investito un uomo. E nessuno controllò bene neppure il cronotachigrafo del quattro assi. Sul dischetto di carta che a quei tempi i camionisti erano obbligati a compilare e inserire nel cruscotto – era una sorta di scatola nera – c’era scritto che Pisano era partito da Rosarno, un paese in provincia di Reggio Calabria, e aveva percorso circa 160 chilometri in quattro ore prima di investire Denis, come scrissero i carabinieri. Ma i conti non tornano: tra Rosarno e Roseto Capo Spulico ci sono circa 230 chilometri. E poi se il camion era andato in media a 40 km orari come era stato possibile che non fosse riuscito a frenare in tempo dato che, con i fari accesi nel buio, un ragazzo che indossava vestiti chiari al bordo della strada doveva essere visibile?
6. Il mistero dei vestiti spariti
Sarebbe stato utile anche poter sottoporre a perizia, appunto, i vestiti che il calciatore indossava quando è morto ma qualcuno pensò bene di fare sparire quelle prove importanti per capire cosa fosse davvero accaduto. Finiti nell’inceneritore, disse un infermiere ai familiari. Le foto scattate dai carabinieri però restano: gli indumenti di Denis sono sani, integri, le scarpe allacciate, i calzini perfettamente tirati su. Non è pensabile che siano gli abiti trovati addosso a una persona vittima di un incidente stradale come quello raccontato. Mesi dopo al signor Bergamini furono fatte recapitare le scarpe del figlio, scampate al “raid” per fare scomparire gli oggetti. Gliele diede il direttore sportivo del Cosenza, Roberto Ranzani, che le aveva avute da uno dei factotum della squadra insieme a un messaggio da portare: a fine campionato quella persona sarebbe andata dai genitori di Denis e avrebbe raccontato quello che sapeva sulla sua morte. Tornando in Calabria dopo l’ultima partita di quella stagione, a Trieste, i due factotum del Cosenza però morirono in un incidente stradale sulla Statale Jonica, a pochi chilometri da dove era stato ritrovato il corpo del giocatore. Negli ultimi anni i familiari sono stati chiari e hanno detto che non vogliono che i nomi dei loro cari vengano associati al caso Bergamini.
7. Le indagini del 1994
Cinque anni dopo la morte di Bergamini qualcuno della questura di Cosenza inizia a fare delle indagini, delle ricerche. Vengono anche messe sotto controllo alcune utenze telefoniche ma poi si ferma tutto. Alcuni funzionari vengono trasferiti ad altri uffici e i risultati di quella inchiesta non ufficiale rimasta incompleta finiscono in qualche cassettiera.
La tesi del suicidio e i progetti per il futuro
Tutti quelli che l’hanno conosciuto, hanno sempre ritenuto impossibile che Denis Bergamini si sia suicidato. Lo ripete da 25 anni la sorella: «Ricordo la sua felicità dell’ultimo periodo – dice Donata - stava raggiungendo tutto ciò che desiderava: l’anno dopo avrebbe giocato in serie A, pensava di costruire la sua casa ed era andato già a vedere dei terreni qui vicino da noi, perché cercava un azienda agricola. Giorni dopo la sua mortesapemmo anche che aveva una ragazza che voleva sposare... Non l’avevo mai visto così felice, era l’anno dei grandi progetti per lui». La fidanzata di Denis si chiamava Roberta, era delle sue parti, si conoscevano da anni e a Cosenza ancora non era mai stata. «Quando ci dissero che era morto e che con lui c’era Isabella – continua Donata - noi cademmo dalle nuvole: perché c’era lei? A 100 chilometri da Cosenza? Abbiamo capito male?». Ma al suicidio non hanno creduto mai neppure i compagni di squadra di Denis, i ragazzi che passavano con lui tutti i giorni. Lo hanno detto da subito: era allegro come sempre, professionale in campo, faceva i suoi soliti scherzi nello spogliatoio, era stranissimo che avesse abbandonato il ritiro sapendo che per punizione poi non avrebbe potuto giocare la partita contro il Messina.Nessuno di loro però, in tutti questi anni, ha saputo o voluto dire di più degli ultimi giorni di vita del calciatore. Neppure Michele Padovano, il compagno amico fraterno con cui Denis divideva la casa e le camere d’albergo durante le trasferte (Padovano poi giocò anche nella Juventus e nel 2011 è stato condannato in primo grado a 8 anni e otto mesi per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga). Nei giorni e nei mesi prima che Bergamini morisse nessuno ha notato nulla di diverso in lui, nessuno ha raccolto qualche sua confidenza? Eppure la vita dei giocatori di una squadra di calcio è cameratesca, soprattutto se ci si trova a vivere in una piccola città come Cosenza, lontani dalle proprie case.
Il Totonero e la droga
Le voci, le ipotesi, le chiacchiere e le congetture intorno alla morte di Bergamini sono nate presto. Si disse che il calciatore fosse stato ucciso perché implicato nel Totonero, la compravendita di partite fatta in quegli anni da alcuni calciatori. Il direttore sportivo Ranzani ripete da anni che non ci ha mai creduto: chi avesse voluto corrompere un giocatore – ha ragionato più di una volta - avrebbe scelto un difensore o un portiere o un attaccante, non certo un centrocampista. E poi si parlò di ‘ndrangheta e traffico di droga. Si diceva che la malavita usasse il pullman del Cosenza per portare la droga al nord; una misteriosa ragazza (che poi sparì nel nulla) telefonò più volte a casa Bergamini sostenendo che invece la droga veniva nascosta in scatole di cioccolatini che Denis inconsapevolmente doveva recapitare durante le trasferte. Ci fu chi disse che nella Maserati del calciatore ci fossero doppi fondi in cui venivano nascosti, sempre a sua insaputa, gli stupefacenti. Ma la macchina di Bergamini è stata analizzata dal Ris e risulta esattamente uguale a come uscì dalla fabbrica, senza vani segreti e nascosti.
«Qui a Cosenza c’è stata per molto tempoun’atmosfera pesante creata ad arte per fare paura alle persone e spingerle al stare zitte - spiega Marco De Marco, nel direttivo dell’associazione “Verità per Denis” – La curva, con i suoi striscioni allo stadio, è stata l’unico spicchio della città a rivendicare la verità su quello che era successo a Bergamini». «Quando si parlava di lui – continua De Marco - vedevi sui volti dei tifosi un misto di vergogna e timore». L’associazione, per i 20 anni dalla morte del calciatore, ha organizzato una grande manifestazione che è partita dal tribunale per finire allo stadio San Vito. «Non abbiamo mai ricevuto minacce per quello che facciamo, nessuno è venuto a spaventarci o intimidirci – conclude De Marco – e da pochi mesi è stata aperta anche una scuola calcio intitolata a Denis». La verità allora forse va cercata altrove, nellasfera dei rapporti personali del calciatore. Forse qualcuno voleva punirlo per qualcosa che Bergamini aveva fatto o detto, oppure doveva essere solo una dimostrazione di forza andata troppo oltre. Poi c’è stata la maldestra messa in scena del suicidio, rimasta incredibilmente in piedi per così tanto tempo.
La nuova inchiesta
La procura di Castrovillari da tre anni sta cercando di mettere ordine nei pezzi di questa storia. Isabella Internò oggi è una donna di 45 anni, sposata con un uomo che appartiene alle forze dell’ordine e madre di due figlie. «Si è chiusa in un mutismo assoluto» ha detto il suo legale quando, nel 2013, la donna è stata iscritta nel registro degli indagati. L’autista Raffaele Pisano ha più di 75 anni e anche lui si è avvalso della facoltà di non rispondere. Ilbrigadiere Barbuscio è morto pochi anni dopo Bergamini. Gli atti della nuova inchiesta sono secretati ma, intervistati dal Quotidiano della Calabriagià un paio di anni fa, i medici legali incaricati di esaminare i reperti biologici del calciatore avevano parlato chiaramente: «Non abbiamo scoperto la luna, era già tutto scritto nella perizia di Avato», ha detto Roberto Testi; «allora nessuno l’ha mai letta bene», ha ribadito Franco Bolino.
La mancanza del diritto alla verità
«Quando penso a mio fratello la prima immagine che mi viene in mente è il suo sorriso, la sua voglia di vivere», confida Donata. Tra lei e Denis c’erano solo 16 mesi di differenza, oltre che fratello e sorella erano amici. «Siamo cresciuti insieme, dormivamo nella stessa camera, la sera da piccoli dopo il telegiornale facevamo degli spettacoli casalinghi per i nostri genitori e i nostri nonni: imitavamo i cantanti, loro ridevano», ricorda. Ai suoi figli che da bambini le chiedevano come fosse morto lo zio e perché, Donata all’inizio non sapeva rispondere. Poi per anni ha ripetuto loro: «Stiamo cercando la verità, noi eravamo lontani quando è successo». «Il dolore per una morte è un conto, essere privati di un diritto un altro – conclude oggi –. Messe insieme le due cose rendono la vita invivibile, un inferno». Intanto l’orologio senza graffi di Denis continua a ticchettare.
http://www.corriere.it/cronache/14_nove ... cb18.shtml
Bergamini, 25 anni di misteri e bugie
Tutti i punti dubbi sulla sua morte
Denis, calciatore del Cosenza,fu trovato morto davanti a un camion il 18 novembre del 1989. Suicidio, si disse per anni. Ora sta per chiudersi la nuova inchiesta: per omicidio
di Angela Geraci (CORRIERE DELLA SERA ONLINE DI OGGI)
C’è un orologio che continua a ticchettare in una casa di Boccaleone di Argenta (Ferrara) da venticinque anni. È in perfette condizioni: la cassa dorata lucida, il quadrante senza un graffio, il cinturino in pelle marrone liscio e intatto. Le lancette girano, imperterrite, dentro il cassetto di Donata e scandiscono il tempo che passa senza giustizia per suo fratello Donato, Denis come lo chiamavano tutti. Quell’orologio, infatti, racconta la storia di una morte mai spiegata, lasciata – per scelta, interesse e incuria di qualcuno – senza spiegazioni. Anzi, sepolta da una montagna di bugie. Denis Bergamini ce l’aveva al polso la sera piovosa del 18 novembre del 1989 quando venne trovato morto sul ciglio della Statale Jonica 106 al chilometro 401 vicino a Roseto Capo Spulico, a 100 chilometri da Cosenza. Il corpo del ragazzo, centrocampista del Cosenza di 27 anni, era a pancia in giù sull’asfalto, davanti alle ruote di un camion carico di mandarini che pesava 138 quintali.
L’autista, Raffaele Pisano, raccontò subito di aver investito Denis, di non essere riuscito a frenare e di averlo trascinato «per quasi una cinquantina di metri» sotto il suo gigantesco mezzo. Per 59 metri, precisarono e misero a verbale i carabinieri arrivati sul posto. Denis, disse immediatamente il camionista, si era buttato volontariamente tra le ruote del suo Fiat Iveco 180 e c’era un’altra persona che lo aveva visto e poteva testimoniare: Isabella Internò, la ex fidanzata del ragazzo che era insieme a lui proprio in quel momento. «Si è voluto suicidare», furono le prime parole che la 20enne rivolse all’autista del camion. «Si è buttato sotto le ruote tuffandosi nella stessa posa che si usa quando si fanno i tuffi in piscina: le braccia protese in avanti, la testa leggermente reclinata in avanti, il corpo teso orizzontalmente», dichiarò poi davanti al sostituto procuratore Ottavio Abbate.
Nessuno, venticinque anni fa, si volle soffermare sul fatto che sul corpo del calciatore non ci fosse alcun segno compatibile con la dinamica raccontata. Un corpo stritolato per metri tra l’asfalto e la mole di un mezzo così pesante sarebbe dovuto essere maciullato, con i vestiti quantomeno stracciati in qualche punto. Invece quelle mani «protese in avanti» non avevano un graffio. Così come i piedi, le gambe, le spalle, il volto di Denis (su cui c’era solo una piccola abrasione sulla fronte, vicino all’attaccatura dei capelli sul lato sinistro). I suoi vestiti erano intatti: il gilet di raso, la camicia, i pantaloni, le scarpe di pelle, i calzini a losanghe ancora perfettamente tirati su sul polpaccio. E quell’orologio da polso integro e funzionante. L’unica ferita, grave, era all’altezza del bacino. Denis Bergamini di certo non è stato investito e trascinato come hanno raccontato i testimoni e come è stato avallato dai carabinieri e dai due gradi di giudizio che nei primi anni Novanta hanno assolto il camionista dall’accusa di omicidio colposo. Quella sera di venticinque anni fa le cose non sono andate così come sono state ricostruite. Adesso si sta per chiudere l’inchiesta riaperta nel 2011 dalla procura di Castrovillari, grazie alla tenacia della famiglia Bergamini e al lavoro del loro avvocato Eugenio Gallerani: l’ipotesi di reato, questa volta, è omicidio volontario. Ci sono almeno due indagati: Isabella, per concorso in omicidio, e l’autista del camion per false dichiarazioni ai pm. Ecco, punto per punto, i principali elementi che non tornano in questa vicenda resa difficile dalle menzogne e dal passare degli anni, ma che complicata, in fondo, non doveva essere.
1. La macchina di Denis
Il rapporto scritto dal brigadiere Francesco Barbuscio, il comandante della stazione dei carabinieri di Roseto Capo Spulico arrivato sul luogo dell’“incidente” alle 19,30, contiene una macroscopica incongruenza a proposito della macchina di Bergamini, una Maserati bianca. Nel testo del militare si legge che «sul luogo del sinistro […] l’autocarro era preceduto dall’auto». Quell’auto che, precisa il carabiniere, lui stesso aveva fermato a un posto di blocco due ore prima: a bordo c’erano un ragazzo e una ragazza. Non vedendo la giovane, il brigadiere chiede al camionista dove sia finita e gli viene detto che «con un automobilista di passaggio si era recata a Roseto forse per avvertire i congiunti». Allora Barbuscio scrive di essere andato in paese e di aver trovato vicino a un bar «la ragazza che prendeva posto sulla Maserati di cui sopra». In poche righe la macchina della vittima cambia di posto e si trova contemporaneamente in due luoghi diversi. Ma nessuno ci fa caso. E c’è di più: dagli ordini di servizio in cui i carabinieri registrano tutte le loro attività è sparita proprio la nota, allegato B, con l’elenco delle auto fermate dalle 17 in poi di quel pomeriggio al posto di blocco. C’è poi un altro punto oscuro: Barbuscio scrive di essere stato avvisato che «c’era un morto in mezzo alla strada» dai carabinieri di Rocca Imperiale, un paese vicino, per telefono. Ma chi ha avvisato i carabinieri? Finora non si è mai saputo. Si sa invece che più volte, dopo la morte di Denis, Isabella ha telefonato ai suoi familiari chiedendo che le fosse data la Maserati che Bergamini aveva comprato poco prima da un parente di un dirigente del Cosenza: «Lui me l’aveva promessa in eredità», sosteneva.
2. L’accompagnatore misterioso
Isabella era insieme a Denis quel pomeriggio, anche se (dopo una storia complicata durata quattro anni tra alti e bassi) non stavano più insieme da un paio mesi, ed è la testimone numero uno di quanto accaduto. Al sostituto procuratore dice di aver «chiesto a un ragazzo che si era fermato e aveva una macchina bianca di accompagnarmi a telefonare per chiedere aiuto». Arrivati al bar del paese lei telefona alla madre (e anche alla società del Cosenza e a un giocatore, Marino) mentre «il ragazzo che mi aveva accompagnato telefonò ai carabinieri». Ma i militari sono già sul posto visto che, come dice il brigadiere, sono stati avvisati dai colleghi e Isabella sulla Statale 106 non c’è. Il proprietario del bar, Mario Infantino, dichiara invece che la ragazza arriva nel suo locale insieme a un signore e che, mentre lei parla al telefono, questa persona gli dice di aver lasciato la sua auto sul luogo dell’incidente con dentro la moglie incinta. Per accompagnare Isabella il signore ha usato la Maserati di Denis e poi sempre con quella, dichiara il barista, è tornato dalla moglie lasciando la ragazza nel bar. Come è arrivata davvero Isabella al bar? E come mai l’accompagnatore non si è mai fatto avanti, allora e in tutti questi anni (né lui né l’ipotetica moglie incinta)? Adesso sembra che l’uomo sia stato identificato e ascoltato dagli inquirenti.
3. In viaggio da Taranto
Isabella ha raccontato che quel giorno Denis la passa a prendere in auto sotto casa intorno alle 16. Iniziano a dirigersi verso Taranto e alle 17,30 vengono fermati al posto di blocco dei carabinieri di Roseto. Rimarranno due ore a discutere nella piazzola di sosta vicino a dove sarà trovato il calciatore. Di cosa? Lui voleva lasciare il mondo del calcio e partire per l’estero, Amazzonia o Hawaii. Strano visto che non aveva con sé denaro a sufficienza per una fuga né valigie né passaporto o carta di identità. E poi dal porto di Taranto non ci si imbarca per nessuna destinazione: partono solo merci. Ma quindi, dunque, aveva deciso di scappare o voleva suicidarsi? E se voleva uccidersi perché farlo a 100 chilometri da Cosenza e davanti a una ex fidanzata? Oltretutto il giorno prima di un’importante partita che lui ci teneva a giocare? La domenica il suo Cosenza, salito in serie B l’anno prima e in cui lui stava da quattro anni, doveva affrontare il Messina: Bergamini si era allenato sabato mattina ed era in ritiro con la squadra. «Il calcio era la sua vita – racconta la sorella Donata – e non era mai mancato a un allenamento, anche quando giocava nelle serie minori». Che Bergamini fosse un professionista serio e preciso è stato sempre confermato da tutti: dalla società sportiva, dai suoi compagni di squadra, dall’allenatore.
4. I segni sul corpo
Che Denis non sia stato investito e trascinato per 59 metri dal camion lo capiscono subito sia i tifosi del Cosenza che si precipitano all’obitorio di Trebisacce non appena si diffonde la notizia, sia la famiglia del calciatore che riesce a vedere il corpo la mattina successiva, dopo una notte di viaggio in macchina da Ferrara alla città calabrese. Ai parenti del calciatore, il brigadiere Barbuscio dice che il ragazzo è inguardabile, «distrutto». «Mi ero preparata a vederlo “ammaccato” – ricorda oggi la sorella – ma quando lo vidi in faccia rimasi stordita e scioccata: sembrava che dormisse, notai solo una piccola macchia rotonda grigio-azzurra sulla fronte». L’autopsia non viene fatta subito. Ci sono i funerali a Cosenza (a cui partecipano 8mila persone), poi Denis viene riportato ad Argenta per un’altra funzione religiosa e per essere sepolto. Due mesi dopo, nel gennaio del 1990, viene riesumato e finalmente si fa l’autopsia: 25 pagine in cui il professor Francesco Maria Avato riporta quello che vede (LEGGI LA PERIZIA IN PDF). Risultano «indenni le cosce, le ginocchia, le gambe, i piedi», «gli arti superiori» sono anch’essi «indenni da lesioni», «la teca cranica appare integra». Intorno al collo, «indenne» pure quello, non c’è alcun segno eppure Denis indossava una collanina d’oro (restituita alla sorella dai carabinieri insieme all’orologio e al portafoglio) che avrebbe dovuto lasciare qualche traccia nel trascinamento. Il professore spiega anche che nei casi di investimenti ci sono cinque fasi contraddistinte da lesioni tipiche ma su Bergamini non ci sono tutti questi traumi: c’è solo una «lesività di tipo addominale», gli è stato schiacciato il fianco sul lato destro. Cioè il lato opposto a quello che, stando alla ricostruzione, sarebbe dovuto essere stato colpito dal camion. È verosimile dunque, si legge poi nell’autopsia, «l’ipotesi di schiacciamento da parte di un unico pneumatico del corpo disteso al suolo», un «arrotamento parziale» connesso a un «mezzo pesante dotato di moto “lento”» che ha causato «lesioni da scoppio». Denis è morto in poche decine di secondi per l’emorragia, schiacciato da un camion che gli è salito in parte sul fianco mentre lui era steso a pancia in su. Questo dicono quelle 25 pagine messe da parte e dimenticate per anni. Il professore Avato non è stato mai ascoltato durante il processo all’autista.
5.Il camion
Il camion viene sottoposto a un tipo di sequestro particolare: è lasciato in uso al signor Pisano che quindi risale a bordo e se ne va. Nessuno esaminò quindi il mezzo che aveva investito un uomo. E nessuno controllò bene neppure il cronotachigrafo del quattro assi. Sul dischetto di carta che a quei tempi i camionisti erano obbligati a compilare e inserire nel cruscotto – era una sorta di scatola nera – c’era scritto che Pisano era partito da Rosarno, un paese in provincia di Reggio Calabria, e aveva percorso circa 160 chilometri in quattro ore prima di investire Denis, come scrissero i carabinieri. Ma i conti non tornano: tra Rosarno e Roseto Capo Spulico ci sono circa 230 chilometri. E poi se il camion era andato in media a 40 km orari come era stato possibile che non fosse riuscito a frenare in tempo dato che, con i fari accesi nel buio, un ragazzo che indossava vestiti chiari al bordo della strada doveva essere visibile?
6. Il mistero dei vestiti spariti
Sarebbe stato utile anche poter sottoporre a perizia, appunto, i vestiti che il calciatore indossava quando è morto ma qualcuno pensò bene di fare sparire quelle prove importanti per capire cosa fosse davvero accaduto. Finiti nell’inceneritore, disse un infermiere ai familiari. Le foto scattate dai carabinieri però restano: gli indumenti di Denis sono sani, integri, le scarpe allacciate, i calzini perfettamente tirati su. Non è pensabile che siano gli abiti trovati addosso a una persona vittima di un incidente stradale come quello raccontato. Mesi dopo al signor Bergamini furono fatte recapitare le scarpe del figlio, scampate al “raid” per fare scomparire gli oggetti. Gliele diede il direttore sportivo del Cosenza, Roberto Ranzani, che le aveva avute da uno dei factotum della squadra insieme a un messaggio da portare: a fine campionato quella persona sarebbe andata dai genitori di Denis e avrebbe raccontato quello che sapeva sulla sua morte. Tornando in Calabria dopo l’ultima partita di quella stagione, a Trieste, i due factotum del Cosenza però morirono in un incidente stradale sulla Statale Jonica, a pochi chilometri da dove era stato ritrovato il corpo del giocatore. Negli ultimi anni i familiari sono stati chiari e hanno detto che non vogliono che i nomi dei loro cari vengano associati al caso Bergamini.
7. Le indagini del 1994
Cinque anni dopo la morte di Bergamini qualcuno della questura di Cosenza inizia a fare delle indagini, delle ricerche. Vengono anche messe sotto controllo alcune utenze telefoniche ma poi si ferma tutto. Alcuni funzionari vengono trasferiti ad altri uffici e i risultati di quella inchiesta non ufficiale rimasta incompleta finiscono in qualche cassettiera.
La tesi del suicidio e i progetti per il futuro
Tutti quelli che l’hanno conosciuto, hanno sempre ritenuto impossibile che Denis Bergamini si sia suicidato. Lo ripete da 25 anni la sorella: «Ricordo la sua felicità dell’ultimo periodo – dice Donata - stava raggiungendo tutto ciò che desiderava: l’anno dopo avrebbe giocato in serie A, pensava di costruire la sua casa ed era andato già a vedere dei terreni qui vicino da noi, perché cercava un azienda agricola. Giorni dopo la sua mortesapemmo anche che aveva una ragazza che voleva sposare... Non l’avevo mai visto così felice, era l’anno dei grandi progetti per lui». La fidanzata di Denis si chiamava Roberta, era delle sue parti, si conoscevano da anni e a Cosenza ancora non era mai stata. «Quando ci dissero che era morto e che con lui c’era Isabella – continua Donata - noi cademmo dalle nuvole: perché c’era lei? A 100 chilometri da Cosenza? Abbiamo capito male?». Ma al suicidio non hanno creduto mai neppure i compagni di squadra di Denis, i ragazzi che passavano con lui tutti i giorni. Lo hanno detto da subito: era allegro come sempre, professionale in campo, faceva i suoi soliti scherzi nello spogliatoio, era stranissimo che avesse abbandonato il ritiro sapendo che per punizione poi non avrebbe potuto giocare la partita contro il Messina.Nessuno di loro però, in tutti questi anni, ha saputo o voluto dire di più degli ultimi giorni di vita del calciatore. Neppure Michele Padovano, il compagno amico fraterno con cui Denis divideva la casa e le camere d’albergo durante le trasferte (Padovano poi giocò anche nella Juventus e nel 2011 è stato condannato in primo grado a 8 anni e otto mesi per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga). Nei giorni e nei mesi prima che Bergamini morisse nessuno ha notato nulla di diverso in lui, nessuno ha raccolto qualche sua confidenza? Eppure la vita dei giocatori di una squadra di calcio è cameratesca, soprattutto se ci si trova a vivere in una piccola città come Cosenza, lontani dalle proprie case.
Il Totonero e la droga
Le voci, le ipotesi, le chiacchiere e le congetture intorno alla morte di Bergamini sono nate presto. Si disse che il calciatore fosse stato ucciso perché implicato nel Totonero, la compravendita di partite fatta in quegli anni da alcuni calciatori. Il direttore sportivo Ranzani ripete da anni che non ci ha mai creduto: chi avesse voluto corrompere un giocatore – ha ragionato più di una volta - avrebbe scelto un difensore o un portiere o un attaccante, non certo un centrocampista. E poi si parlò di ‘ndrangheta e traffico di droga. Si diceva che la malavita usasse il pullman del Cosenza per portare la droga al nord; una misteriosa ragazza (che poi sparì nel nulla) telefonò più volte a casa Bergamini sostenendo che invece la droga veniva nascosta in scatole di cioccolatini che Denis inconsapevolmente doveva recapitare durante le trasferte. Ci fu chi disse che nella Maserati del calciatore ci fossero doppi fondi in cui venivano nascosti, sempre a sua insaputa, gli stupefacenti. Ma la macchina di Bergamini è stata analizzata dal Ris e risulta esattamente uguale a come uscì dalla fabbrica, senza vani segreti e nascosti.
«Qui a Cosenza c’è stata per molto tempoun’atmosfera pesante creata ad arte per fare paura alle persone e spingerle al stare zitte - spiega Marco De Marco, nel direttivo dell’associazione “Verità per Denis” – La curva, con i suoi striscioni allo stadio, è stata l’unico spicchio della città a rivendicare la verità su quello che era successo a Bergamini». «Quando si parlava di lui – continua De Marco - vedevi sui volti dei tifosi un misto di vergogna e timore». L’associazione, per i 20 anni dalla morte del calciatore, ha organizzato una grande manifestazione che è partita dal tribunale per finire allo stadio San Vito. «Non abbiamo mai ricevuto minacce per quello che facciamo, nessuno è venuto a spaventarci o intimidirci – conclude De Marco – e da pochi mesi è stata aperta anche una scuola calcio intitolata a Denis». La verità allora forse va cercata altrove, nellasfera dei rapporti personali del calciatore. Forse qualcuno voleva punirlo per qualcosa che Bergamini aveva fatto o detto, oppure doveva essere solo una dimostrazione di forza andata troppo oltre. Poi c’è stata la maldestra messa in scena del suicidio, rimasta incredibilmente in piedi per così tanto tempo.
La nuova inchiesta
La procura di Castrovillari da tre anni sta cercando di mettere ordine nei pezzi di questa storia. Isabella Internò oggi è una donna di 45 anni, sposata con un uomo che appartiene alle forze dell’ordine e madre di due figlie. «Si è chiusa in un mutismo assoluto» ha detto il suo legale quando, nel 2013, la donna è stata iscritta nel registro degli indagati. L’autista Raffaele Pisano ha più di 75 anni e anche lui si è avvalso della facoltà di non rispondere. Ilbrigadiere Barbuscio è morto pochi anni dopo Bergamini. Gli atti della nuova inchiesta sono secretati ma, intervistati dal Quotidiano della Calabriagià un paio di anni fa, i medici legali incaricati di esaminare i reperti biologici del calciatore avevano parlato chiaramente: «Non abbiamo scoperto la luna, era già tutto scritto nella perizia di Avato», ha detto Roberto Testi; «allora nessuno l’ha mai letta bene», ha ribadito Franco Bolino.
La mancanza del diritto alla verità
«Quando penso a mio fratello la prima immagine che mi viene in mente è il suo sorriso, la sua voglia di vivere», confida Donata. Tra lei e Denis c’erano solo 16 mesi di differenza, oltre che fratello e sorella erano amici. «Siamo cresciuti insieme, dormivamo nella stessa camera, la sera da piccoli dopo il telegiornale facevamo degli spettacoli casalinghi per i nostri genitori e i nostri nonni: imitavamo i cantanti, loro ridevano», ricorda. Ai suoi figli che da bambini le chiedevano come fosse morto lo zio e perché, Donata all’inizio non sapeva rispondere. Poi per anni ha ripetuto loro: «Stiamo cercando la verità, noi eravamo lontani quando è successo». «Il dolore per una morte è un conto, essere privati di un diritto un altro – conclude oggi –. Messe insieme le due cose rendono la vita invivibile, un inferno». Intanto l’orologio senza graffi di Denis continua a ticchettare.
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Re: VERITA' PER DENIS!
18 novembre 1989 - 18 novembre 2014
25 ANNI SENZA VERITA' E GIUSTIZIA
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Re: VERITA' PER DENIS!
Avvenire di oggi, giovedì 20 novembre 2014.
Articolo di Massimiliano Castellani
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Re: VERITA' PER DENIS!
IL GARANTISTA DI Oggi 19 dicembre 2014
"Perchè di tempo senza verità ne è passato fin troppo"
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Re: VERITA' PER DENIS!
Quando la verità viene sepolta, cresce, soffoca, accumula una tale forza esplosiva che, il giorno che scoppia, fa saltare ogni cosa con se' .
Donato nel cuore!!!
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Re: VERITA' PER DENIS!
La Procura di Castrovillari ha chiesto l'archiviazione per i due indagati nell'inchiesta per la morte del calciatore Donato Bergamini.
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Re: VERITA' PER DENIS!
http://www.gazzettadelsud.it/news/12156 ... witterfeedluca 75 ha scritto:La Procura di Castrovillari ha chiesto l'archiviazione per i due indagati nell'inchiesta per la morte del calciatore Donato Bergamini.
Sarebbero l'autista e l'ex fidanzata