giusto per far capire ai più giovani cosa si sono persi a non aver visto il Cosenza di Bruno Giorgi
https://www.repubblica.it/dossier/sport ... P1-S5.4-T1
Bari, la pazza gioia per la serie A e l'uragano Urban
di COSIMO CITO
Ho una medaglia d’argento infissa in un quadretto, circondata da un panno di velluto verde. Ha le date di una stagione indimenticabile, 1988-1989, un campionato da record, storico e bellissimo, perché il primo di cui abbia memoria, perché lo vincemmo, perché avevo meno di sette anni, perché un pomeriggio mio padre decise che era arrivato il momento per me. “Andiamo allo stadio”. Quell’anno vincemmo 16 partite, ne pareggiammo 19, ne perdemmo 3. Una stagione da record, avrebbero scritto i giornali, ma non parlavano di noi. Il Televideo, in quei giorni, alla pagina della classifica di Serie A, la 203 (da allora e per sempre), aveva la parola Inter fatta con lettere di colori diversi, bianco, rosso e verde alternati. Noi eravamo nella classifica di Serie B. In testa, assieme al Genoa. Eccoci lassù. Il Bari.
Quella medaglia ricorda la promozione in A del Bari. L’unica squadra per cui abbia mai tifato, per ragioni territoriali e anche, semplicemente, perché avevo sempre e solo visto allo stadio partite del Bari, e sentito intorno a me tifare Bari. Ho visto Maradona, Baggio, Gullit, Van Basten, ma il giocatore che mi abbia più impressionato in tutta la vita giocava al tempo in Serie B, nel Cosenza. Il suo nome è Alberto Urban.
Ricordo la figurina, condivisa due anni dopo alla Triestina con Lorenzo Scarafoni. Lo ricordo dal vivo. La data, anche, ricordo: 28 maggio 1989. Avevo quasi finito la terza elementare. C’era un tempo bellissimo, allo Stadio della Vittoria. Curva Sud, su panche di legno con un numerino scritto a vernice, il biglietto di carta strappato a metà all’ingresso, con il galletto decapitato dall’improvvida mano, e il lupo rossoblù rimasto intero, un presagio, chissà. Io ero piccolo e non pagavo, mio padre dovette prendermi in braccio per dimostrare che avremmo anche potuto occupare un posto solo. Avevamo parcheggiato vicino all’ingresso della Fiera del Levante, dove sempre a settembre andavamo a cercare mobili per la nuova casa. C’era un lunapark bellissimo.
Provai il fatidico Borghetti, anzi, “u borghett”, non avevo mai bevuto né liquore né caffè, non riuscii a mandare giù quella mistura di asprezze sconosciute, sapore forte, da grandi, lo stesso che si prova nell’entrare allo stadio per la prima volta. Ebbi una sensazione di caldo e di festa tutto il giorno, era l’aria attorno, il campionato vinto, e Matarrese, non Antonio, al tempo presidente della Figc, ma Vincenzo, fratello e nostro presidente, che andò sotto la curva scansando le reti messe dietro la porta. Comparve un galletto vero, in corsa nel cerchio di centrocampo, i giocatori salirono e si alzarono nuvole di sogno, bianche e rosse. Piovvero pacchi di sale e mucchi di carta, svolazzavano fogli di Gazzetta del Mezzogiorno in un vento forte che profumava di sale, in quello stadio vicino al lungomare, usato due anni dopo come campo di concentramento per i profughi della Vlore.
Ero piccolo e vidi poco, sentivo la radiocronaca dal vivo di chi mi stava alle spalle, poco tecnica e molto sentimentale, in un dialetto che era pressappoco il mio, anche se io venivo dalla provincia. Per me Bari erano i negozi il giovedì pomeriggio, la stazione centrale, il parcheggio del Petruzzelli e i grandi lampioni. Il Bari in maglia bianca con la scritta Sud Leasing, lising, leasing, ma come si pronuncia?, e il Cosenza all’attacco, tra ululati dei suoi tifosi venuti in massa dalla Calabria per sostenere la rincorsa alla A dei lupi, poi fallita in un drammatico spareggio contro la Cremonese.* Vidi poco ma sentii questo nome, Urban, venire da dietro di me. Straniero? pensai, quindi forte: non c’erano stranieri scarsi nel mio immaginario. Non era straniero. In B gli stranieri li avevano solo le squadre retrocesse dalla A. Noi non ne avevamo: Mannini, Loseto, Carrera, Terracenere, De Trizio, Carbone, Di Gennaro, Perrone, Lupo, Maiellaro, Monelli. Avevo un poster, arrotolato, con queste facce più altre, e quella di Salvemini, l’allenatore, in giacca e cravatta al centro, col suo nome che avevo visto già sulla targa di una via. Ma come, gli hanno già intitolato una strada, via Gaetano Salvemini? Non era lui, ma per me sì.
Bari-Cosenza, una festa, e uscii dallo stadio pensando che avessimo vinto, trent’anni con questa convinzione finché Wikipedia non mi ha raccontato un’altra storia, Bari-Cosenza 0-3, e l’ultimo gol l’aveva segnato Urban, il temutissimo, il babau, il nome urlato alle mie spalle con quella n finale che rimandava alla Cecoslovacchia o all’Urss. Più di entrambe è durato il mio ricordo, a pensarci, più di quello stadio e anche più del Bari, vanamente proteso verso l’Europa, come cantavano i tifosi: l’Europa arrivò, in qualche modo, l’anno dopo, quando vincemmo la Mitropa Cup. Mai vinto altro, ma qualche soddisfazione ce la siamo presa qua e là, a distanza di anni tra l’una e l’altra, anni scanditi da altri nomi, Boban, Protti, Masinga, Cassano, Barreto, un 4-1 al Novara che non servì a niente, fino agli sperduti giorni nostri.
Ma la medaglia è sempre là, è appesa al muro, col galletto al centro, la data, i giorni magici, la formazione scritta su un lembo di Gazzetta del Mezzogiorno consumato tra le mani, mentre Urban imperversava sulla nostra giornata di festa senza sgualcirla, senza impedirla, inutilmente anche per loro. “Urbààààn”, lui. Sarebbe stato bello salire insieme, sarebbe stato bello vederlo far paura agli altri in maglia biancorossa. Avremmo vinto lo scudetto, forse la Coppa dei Campioni, con lui. Ricordo di averlo pensato davvero, forse lo penso ancora, e una cosa è certa, non lo sapremo mai.
*purtroppo noi allo spareggio con la Cremonese neppure ci andammo (altrimenti avremmo sotterrato loro e le loro migno*** - fare le leva a Cremona era un privilegio, c'era un bancomat d'u pilu che altro che cetto la qualunque!), lo spareggio toccò ai reggicani di Nevio Scala, che comunque lo presero aru prosio!
l'uragano Urban
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Re: l'uragano Urban
Grandissimo giocatore, Albertino Urban. Classe cristallina e tanti capiddri, come solo gli estrosi, in quegli anni, potevano permettersi di portare. Per me quello fu il più bel Cosenza mai visto!
Ma perché non possiamo essere semplicemente dei tifosi sereni? Ogni giorno ce n'è una nuova! Cosenza, infinita... sofferenza!
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Re: l'uragano Urban
Proprio ieri sera ho rivisto per la millesima volta su YouTube il video di Salernitana cosenza del 1988 con Urban scatenato e massacrato da Cocco (roba d'altri tempi) e nonostante tutto si rialzava sempre
Un mito.
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Re: l'uragano Urban
che annata spettacolare, all'andata il 31 dicembre ci vinsero in casa 0-1 ...arrivavamo da una strepitosa vitoria a Padova che ci proiettava solitari al 4.o posto, mi ricordo le buste d'arance portate al campo come stuzzichino due ore prima dell'inizio della partita...smile ha scritto: mercoledì 23 ottobre 2019, 9:55 giusto per far capire ai più giovani cosa si sono persi a non aver visto il Cosenza di Bruno Giorgi
https://www.repubblica.it/dossier/sport ... P1-S5.4-T1
Bari, la pazza gioia per la serie A e l'uragano Urban
di COSIMO CITO
Ho una medaglia d’argento infissa in un quadretto, circondata da un panno di velluto verde. Ha le date di una stagione indimenticabile, 1988-1989, un campionato da record, storico e bellissimo, perché il primo di cui abbia memoria, perché lo vincemmo, perché avevo meno di sette anni, perché un pomeriggio mio padre decise che era arrivato il momento per me. “Andiamo allo stadio”. Quell’anno vincemmo 16 partite, ne pareggiammo 19, ne perdemmo 3. Una stagione da record, avrebbero scritto i giornali, ma non parlavano di noi. Il Televideo, in quei giorni, alla pagina della classifica di Serie A, la 203 (da allora e per sempre), aveva la parola Inter fatta con lettere di colori diversi, bianco, rosso e verde alternati. Noi eravamo nella classifica di Serie B. In testa, assieme al Genoa. Eccoci lassù. Il Bari.
Quella medaglia ricorda la promozione in A del Bari. L’unica squadra per cui abbia mai tifato, per ragioni territoriali e anche, semplicemente, perché avevo sempre e solo visto allo stadio partite del Bari, e sentito intorno a me tifare Bari. Ho visto Maradona, Baggio, Gullit, Van Basten, ma il giocatore che mi abbia più impressionato in tutta la vita giocava al tempo in Serie B, nel Cosenza. Il suo nome è Alberto Urban.
Ricordo la figurina, condivisa due anni dopo alla Triestina con Lorenzo Scarafoni. Lo ricordo dal vivo. La data, anche, ricordo: 28 maggio 1989. Avevo quasi finito la terza elementare. C’era un tempo bellissimo, allo Stadio della Vittoria. Curva Sud, su panche di legno con un numerino scritto a vernice, il biglietto di carta strappato a metà all’ingresso, con il galletto decapitato dall’improvvida mano, e il lupo rossoblù rimasto intero, un presagio, chissà. Io ero piccolo e non pagavo, mio padre dovette prendermi in braccio per dimostrare che avremmo anche potuto occupare un posto solo. Avevamo parcheggiato vicino all’ingresso della Fiera del Levante, dove sempre a settembre andavamo a cercare mobili per la nuova casa. C’era un lunapark bellissimo.
Provai il fatidico Borghetti, anzi, “u borghett”, non avevo mai bevuto né liquore né caffè, non riuscii a mandare giù quella mistura di asprezze sconosciute, sapore forte, da grandi, lo stesso che si prova nell’entrare allo stadio per la prima volta. Ebbi una sensazione di caldo e di festa tutto il giorno, era l’aria attorno, il campionato vinto, e Matarrese, non Antonio, al tempo presidente della Figc, ma Vincenzo, fratello e nostro presidente, che andò sotto la curva scansando le reti messe dietro la porta. Comparve un galletto vero, in corsa nel cerchio di centrocampo, i giocatori salirono e si alzarono nuvole di sogno, bianche e rosse. Piovvero pacchi di sale e mucchi di carta, svolazzavano fogli di Gazzetta del Mezzogiorno in un vento forte che profumava di sale, in quello stadio vicino al lungomare, usato due anni dopo come campo di concentramento per i profughi della Vlore.
Ero piccolo e vidi poco, sentivo la radiocronaca dal vivo di chi mi stava alle spalle, poco tecnica e molto sentimentale, in un dialetto che era pressappoco il mio, anche se io venivo dalla provincia. Per me Bari erano i negozi il giovedì pomeriggio, la stazione centrale, il parcheggio del Petruzzelli e i grandi lampioni. Il Bari in maglia bianca con la scritta Sud Leasing, lising, leasing, ma come si pronuncia?, e il Cosenza all’attacco, tra ululati dei suoi tifosi venuti in massa dalla Calabria per sostenere la rincorsa alla A dei lupi, poi fallita in un drammatico spareggio contro la Cremonese.* Vidi poco ma sentii questo nome, Urban, venire da dietro di me. Straniero? pensai, quindi forte: non c’erano stranieri scarsi nel mio immaginario. Non era straniero. In B gli stranieri li avevano solo le squadre retrocesse dalla A. Noi non ne avevamo: Mannini, Loseto, Carrera, Terracenere, De Trizio, Carbone, Di Gennaro, Perrone, Lupo, Maiellaro, Monelli. Avevo un poster, arrotolato, con queste facce più altre, e quella di Salvemini, l’allenatore, in giacca e cravatta al centro, col suo nome che avevo visto già sulla targa di una via. Ma come, gli hanno già intitolato una strada, via Gaetano Salvemini? Non era lui, ma per me sì.
Bari-Cosenza, una festa, e uscii dallo stadio pensando che avessimo vinto, trent’anni con questa convinzione finché Wikipedia non mi ha raccontato un’altra storia, Bari-Cosenza 0-3, e l’ultimo gol l’aveva segnato Urban, il temutissimo, il babau, il nome urlato alle mie spalle con quella n finale che rimandava alla Cecoslovacchia o all’Urss. Più di entrambe è durato il mio ricordo, a pensarci, più di quello stadio e anche più del Bari, vanamente proteso verso l’Europa, come cantavano i tifosi: l’Europa arrivò, in qualche modo, l’anno dopo, quando vincemmo la Mitropa Cup. Mai vinto altro, ma qualche soddisfazione ce la siamo presa qua e là, a distanza di anni tra l’una e l’altra, anni scanditi da altri nomi, Boban, Protti, Masinga, Cassano, Barreto, un 4-1 al Novara che non servì a niente, fino agli sperduti giorni nostri.
Ma la medaglia è sempre là, è appesa al muro, col galletto al centro, la data, i giorni magici, la formazione scritta su un lembo di Gazzetta del Mezzogiorno consumato tra le mani, mentre Urban imperversava sulla nostra giornata di festa senza sgualcirla, senza impedirla, inutilmente anche per loro. “Urbààààn”, lui. Sarebbe stato bello salire insieme, sarebbe stato bello vederlo far paura agli altri in maglia biancorossa. Avremmo vinto lo scudetto, forse la Coppa dei Campioni, con lui. Ricordo di averlo pensato davvero, forse lo penso ancora, e una cosa è certa, non lo sapremo mai.
*purtroppo noi allo spareggio con la Cremonese neppure ci andammo (altrimenti avremmo sotterrato loro e le loro migno*** - fare le leva a Cremona era un privilegio, c'era un bancomat d'u pilu che altro che cetto la qualunque!), lo spareggio toccò ai reggicani di Nevio Scala, che comunque lo presero aru prosio!
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Re: l'uragano Urban
Oberdan_80 ha scritto: mercoledì 23 ottobre 2019, 23:02che annata spettacolare, all'andata il 31 dicembre ci vinsero in casa 0-1 ...arrivavamo da una strepitosa vitoria a Padova che ci proiettava solitari al 4.o posto, mi ricordo le buste d'arance portate al campo come stuzzichino due ore prima dell'inizio della partita...smile ha scritto: mercoledì 23 ottobre 2019, 9:55 giusto per far capire ai più giovani cosa si sono persi a non aver visto il Cosenza di Bruno Giorgi
https://www.repubblica.it/dossier/sport ... P1-S5.4-T1
Bari, la pazza gioia per la serie A e l'uragano Urban
di COSIMO CITO
Ho una medaglia d’argento infissa in un quadretto, circondata da un panno di velluto verde. Ha le date di una stagione indimenticabile, 1988-1989, un campionato da record, storico e bellissimo, perché il primo di cui abbia memoria, perché lo vincemmo, perché avevo meno di sette anni, perché un pomeriggio mio padre decise che era arrivato il momento per me. “Andiamo allo stadio”. Quell’anno vincemmo 16 partite, ne pareggiammo 19, ne perdemmo 3. Una stagione da record, avrebbero scritto i giornali, ma non parlavano di noi. Il Televideo, in quei giorni, alla pagina della classifica di Serie A, la 203 (da allora e per sempre), aveva la parola Inter fatta con lettere di colori diversi, bianco, rosso e verde alternati. Noi eravamo nella classifica di Serie B. In testa, assieme al Genoa. Eccoci lassù. Il Bari.
Quella medaglia ricorda la promozione in A del Bari. L’unica squadra per cui abbia mai tifato, per ragioni territoriali e anche, semplicemente, perché avevo sempre e solo visto allo stadio partite del Bari, e sentito intorno a me tifare Bari. Ho visto Maradona, Baggio, Gullit, Van Basten, ma il giocatore che mi abbia più impressionato in tutta la vita giocava al tempo in Serie B, nel Cosenza. Il suo nome è Alberto Urban.
Ricordo la figurina, condivisa due anni dopo alla Triestina con Lorenzo Scarafoni. Lo ricordo dal vivo. La data, anche, ricordo: 28 maggio 1989. Avevo quasi finito la terza elementare. C’era un tempo bellissimo, allo Stadio della Vittoria. Curva Sud, su panche di legno con un numerino scritto a vernice, il biglietto di carta strappato a metà all’ingresso, con il galletto decapitato dall’improvvida mano, e il lupo rossoblù rimasto intero, un presagio, chissà. Io ero piccolo e non pagavo, mio padre dovette prendermi in braccio per dimostrare che avremmo anche potuto occupare un posto solo. Avevamo parcheggiato vicino all’ingresso della Fiera del Levante, dove sempre a settembre andavamo a cercare mobili per la nuova casa. C’era un lunapark bellissimo.
Provai il fatidico Borghetti, anzi, “u borghett”, non avevo mai bevuto né liquore né caffè, non riuscii a mandare giù quella mistura di asprezze sconosciute, sapore forte, da grandi, lo stesso che si prova nell’entrare allo stadio per la prima volta. Ebbi una sensazione di caldo e di festa tutto il giorno, era l’aria attorno, il campionato vinto, e Matarrese, non Antonio, al tempo presidente della Figc, ma Vincenzo, fratello e nostro presidente, che andò sotto la curva scansando le reti messe dietro la porta. Comparve un galletto vero, in corsa nel cerchio di centrocampo, i giocatori salirono e si alzarono nuvole di sogno, bianche e rosse. Piovvero pacchi di sale e mucchi di carta, svolazzavano fogli di Gazzetta del Mezzogiorno in un vento forte che profumava di sale, in quello stadio vicino al lungomare, usato due anni dopo come campo di concentramento per i profughi della Vlore.
Ero piccolo e vidi poco, sentivo la radiocronaca dal vivo di chi mi stava alle spalle, poco tecnica e molto sentimentale, in un dialetto che era pressappoco il mio, anche se io venivo dalla provincia. Per me Bari erano i negozi il giovedì pomeriggio, la stazione centrale, il parcheggio del Petruzzelli e i grandi lampioni. Il Bari in maglia bianca con la scritta Sud Leasing, lising, leasing, ma come si pronuncia?, e il Cosenza all’attacco, tra ululati dei suoi tifosi venuti in massa dalla Calabria per sostenere la rincorsa alla A dei lupi, poi fallita in un drammatico spareggio contro la Cremonese.* Vidi poco ma sentii questo nome, Urban, venire da dietro di me. Straniero? pensai, quindi forte: non c’erano stranieri scarsi nel mio immaginario. Non era straniero. In B gli stranieri li avevano solo le squadre retrocesse dalla A. Noi non ne avevamo: Mannini, Loseto, Carrera, Terracenere, De Trizio, Carbone, Di Gennaro, Perrone, Lupo, Maiellaro, Monelli. Avevo un poster, arrotolato, con queste facce più altre, e quella di Salvemini, l’allenatore, in giacca e cravatta al centro, col suo nome che avevo visto già sulla targa di una via. Ma come, gli hanno già intitolato una strada, via Gaetano Salvemini? Non era lui, ma per me sì.
Bari-Cosenza, una festa, e uscii dallo stadio pensando che avessimo vinto, trent’anni con questa convinzione finché Wikipedia non mi ha raccontato un’altra storia, Bari-Cosenza 0-3, e l’ultimo gol l’aveva segnato Urban, il temutissimo, il babau, il nome urlato alle mie spalle con quella n finale che rimandava alla Cecoslovacchia o all’Urss. Più di entrambe è durato il mio ricordo, a pensarci, più di quello stadio e anche più del Bari, vanamente proteso verso l’Europa, come cantavano i tifosi: l’Europa arrivò, in qualche modo, l’anno dopo, quando vincemmo la Mitropa Cup. Mai vinto altro, ma qualche soddisfazione ce la siamo presa qua e là, a distanza di anni tra l’una e l’altra, anni scanditi da altri nomi, Boban, Protti, Masinga, Cassano, Barreto, un 4-1 al Novara che non servì a niente, fino agli sperduti giorni nostri.
Ma la medaglia è sempre là, è appesa al muro, col galletto al centro, la data, i giorni magici, la formazione scritta su un lembo di Gazzetta del Mezzogiorno consumato tra le mani, mentre Urban imperversava sulla nostra giornata di festa senza sgualcirla, senza impedirla, inutilmente anche per loro. “Urbààààn”, lui. Sarebbe stato bello salire insieme, sarebbe stato bello vederlo far paura agli altri in maglia biancorossa. Avremmo vinto lo scudetto, forse la Coppa dei Campioni, con lui. Ricordo di averlo pensato davvero, forse lo penso ancora, e una cosa è certa, non lo sapremo mai.
*purtroppo noi allo spareggio con la Cremonese neppure ci andammo (altrimenti avremmo sotterrato loro e le loro migno*** - fare le leva a Cremona era un privilegio, c'era un bancomat d'u pilu che altro che cetto la qualunque!), lo spareggio toccò ai reggicani di Nevio Scala, che comunque lo presero aru prosio!
Sconfitta assolutamente immeritata. Forse l'unico tiro loro in porta. La ricordo eccome quella partita
GIGI MARULLA NEL CUORE!!! 28/08/2016 catanzaro - COSENZA 0-3
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Re: l'uragano Urban
REAL ha scritto: mercoledì 23 ottobre 2019, 13:30 Proprio ieri sera ho rivisto per la millesima volta su YouTube il video di Salernitana cosenza del 1988 con Urban scatenato e massacrato da Cocco (roba d'altri tempi) e nonostante tutto si rialzava sempre
Un mito.
Urban era anche andato a casa di Cocco qualche giorno prima della partita in quanto amici. Poi non riuscì a comprendere quell'atteggiamento scorretto nei suoi confronti durante la gara (lo disse in un'intervista dell'epoca)
GIGI MARULLA NEL CUORE!!! 28/08/2016 catanzaro - COSENZA 0-3
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Re: l'uragano Urban
dalla stessa rubrica
https://www.repubblica.it/dossier/sport ... 238832536/
Lombardo, il Cosenza e quel palo che ancora trema
di VINCENZO AVERSA
Cosenza-Udinese 4 giugno 1989; 0-0. "...Il palo di Lombardo rimase lì, fermo come tutti i pali e stampato nella nostra memoria storica, a ricordarci che le vittorie sono belle, ma le vittorie mancate si scolpiscono da sole nella corteccia cerebrale..."
Era un caldo pomeriggio del 4 giugno 1989 e gli orologi battevano le 4 e mezza. Così potrebbe cominciare il racconto di quella giornata.
E invece no, perchè non siamo in un romanzo di Orwell (Era una luminosa e fredda giornata di aprile, e gli orologi battevano l’una, 1984) ma nel resoconto di una giornata maledetta che ha avvelenato i sogni di una generazione. E allora riproviamo.
Faceva un caldo che si squagliava e le bestemmie parlavano con gli angeli. Lo stadio San Vito, con le tribune ancora a forma di ferro di cavallo (mancava la Curva Nord), era pieno come un uovo. Quanti spettatori fossero presenti è impossibile dirlo, chi dice 15, chi dice 20mila. Posso solo dire che ero presente anche io, 11 anni, in tribuna B, dalle 2 e mezza. Dua ore prima dell’inizio della partita, con la pasta al forno mangiata da meno di un’ora che con quel caldo era ormai fermentata e dava effetti allucinatori. Si giocava Cosenza – Udinese, valevole per la 36° giornata di serie B. Mancavano due partite alla fine della stagione, e, in buona sostanza, quello era una specie di spareggio. Se il Cosenza avesse vinto, sarebbe quasi sicuramente salito in serie A. L’Udinese, che ci precedeva in classifica, aveva invece due risultati a disposizione, pareggio o vittoria.
L’Udinese era una di quelle squadre che all’epoca faceva su e giù dalla serie A, era programmata per vincere il campionato di B ed infatti era piena di calciatori comprati apposta per farlo. Per dire, il portiere era Claudio Garella, che nel suo curriculum poteva vantare due scudetti vinti con il Verona ed il Napoli.
Il Cosenza invece era stato appena promosso in B, dopo venticinque anni d’inferno nelle serie minori. Dopo un inizio a dir poco stentato, i Lupi avevano comniciato a vincere ed a non fermarsi più, tant’è che erano arrivati a giocarsi la promozione in A.Già dall’inizio della partita era stato chiaro quale sarebbe stato il tema tattico: Cosenza in avanti in cerca del gol, Udinese a difendere lo 0 a 0. Del resto, l’allenatore i l’Udinese era uno pratico, Nedo Sonetti, già allenatore del Cosenza nell’era buia delle serie minori (a lui il merito della promozione dalla C2 alla C1). E Sonetti era uno che badava al sodo, in grado di comprendere quali erano le partite da vincere ed in quali circostanze conveniva invece giocare per strappare un punto.
In quell’occasione, con quel caldo e ventimila persone a fare un tifo d’inferno, Sonetti aveva capito che sarebbe stato meglio accontentarsi del pareggio. Del resto, poteva fare affidamento su una difesa solida e un portiere in stato di grazia. Il già citato Garella decise che la sua porta sarebbe rimasta inviolata; com’era suo costume, parò ccu tutte le parti del corpo a sua disposizione: mani, petto, stinco, coscia, piede, gomiti, spalla.
Fino a quel momento fatidico, il 55° minuto, 10° del secondo tempo, quando la difesa dei friulani sembrò cedere in maniera definitiva: il destino parve compiersi grazie a Claudio Lombardo, terzino sinistro dei lupi. Lombardo decise di accentrarsi e dal limite dell’area di rigore lasciò partire un sinistro potente: Garella si lanciò alla sua destra, con l’espressione di chi era un po’ seccato da tutto quel lavoro in quel pomeriggio i giugno in cui anche le inferriate dello stadio parevano fondersi dal caldo.
Garella era sicuro di arrivarci; invece, il tiro di Lombardo era troppo violento, troppo veloce. Ma anche troppo angolato. Colpì il palo e tutti sentirono “stamp!”, così nitido che alcuni pensarono che la porta sarebbe crollata sul portierone dei friulani. Ma forse era un’allucinazione collettiva, del resto non credo di essere stato l’unico ad aver mangiato la pasta al forno un’ora prima di recarmi allo stadio.
C’erano ancora 35 minuti da giocare, ma era ormai chiaro a tutti che la partita si sarebbe conclusa 0 a 0. E così fu.
E il palo di Lombardo rimase lì, fermo come tutti i pali e stampato nella nostra memoria storica, a ricordarci che le vittorie sono belle, ma le vittorie mancate si scolpiscono da sole nella corteccia cerebrale senza dover compiere lo sforzo di richiamarle. Cume una madeleine di Proust uscita male, ti ricordi il rumore del pallone sul palo, la puzza di sudore (tua e di tutta la tribuna B), la lista delle maledizioni inviate al povero Garella.
E cominci a pensare a tutti i metaforici pali che hai colpito nella vita, tutti i sentieri che invece di biforcarsi borgesianamente talvolta ti conducono davanti ad una porta chiusa e tu resti con la chiave sbagliata in mano. Alla fine ti chiedi se in fondo non sia stato meglio così, perchè se certe cose fossero andate diversamente non saresti arrivato dove sei ora. Perchè la vita ha poche certezze; e una di queste è quel maledetto palo che ancora trema.
https://www.repubblica.it/dossier/sport ... 238832536/
Lombardo, il Cosenza e quel palo che ancora trema
di VINCENZO AVERSA
Cosenza-Udinese 4 giugno 1989; 0-0. "...Il palo di Lombardo rimase lì, fermo come tutti i pali e stampato nella nostra memoria storica, a ricordarci che le vittorie sono belle, ma le vittorie mancate si scolpiscono da sole nella corteccia cerebrale..."
Era un caldo pomeriggio del 4 giugno 1989 e gli orologi battevano le 4 e mezza. Così potrebbe cominciare il racconto di quella giornata.
E invece no, perchè non siamo in un romanzo di Orwell (Era una luminosa e fredda giornata di aprile, e gli orologi battevano l’una, 1984) ma nel resoconto di una giornata maledetta che ha avvelenato i sogni di una generazione. E allora riproviamo.
Faceva un caldo che si squagliava e le bestemmie parlavano con gli angeli. Lo stadio San Vito, con le tribune ancora a forma di ferro di cavallo (mancava la Curva Nord), era pieno come un uovo. Quanti spettatori fossero presenti è impossibile dirlo, chi dice 15, chi dice 20mila. Posso solo dire che ero presente anche io, 11 anni, in tribuna B, dalle 2 e mezza. Dua ore prima dell’inizio della partita, con la pasta al forno mangiata da meno di un’ora che con quel caldo era ormai fermentata e dava effetti allucinatori. Si giocava Cosenza – Udinese, valevole per la 36° giornata di serie B. Mancavano due partite alla fine della stagione, e, in buona sostanza, quello era una specie di spareggio. Se il Cosenza avesse vinto, sarebbe quasi sicuramente salito in serie A. L’Udinese, che ci precedeva in classifica, aveva invece due risultati a disposizione, pareggio o vittoria.
L’Udinese era una di quelle squadre che all’epoca faceva su e giù dalla serie A, era programmata per vincere il campionato di B ed infatti era piena di calciatori comprati apposta per farlo. Per dire, il portiere era Claudio Garella, che nel suo curriculum poteva vantare due scudetti vinti con il Verona ed il Napoli.
Il Cosenza invece era stato appena promosso in B, dopo venticinque anni d’inferno nelle serie minori. Dopo un inizio a dir poco stentato, i Lupi avevano comniciato a vincere ed a non fermarsi più, tant’è che erano arrivati a giocarsi la promozione in A.Già dall’inizio della partita era stato chiaro quale sarebbe stato il tema tattico: Cosenza in avanti in cerca del gol, Udinese a difendere lo 0 a 0. Del resto, l’allenatore i l’Udinese era uno pratico, Nedo Sonetti, già allenatore del Cosenza nell’era buia delle serie minori (a lui il merito della promozione dalla C2 alla C1). E Sonetti era uno che badava al sodo, in grado di comprendere quali erano le partite da vincere ed in quali circostanze conveniva invece giocare per strappare un punto.
In quell’occasione, con quel caldo e ventimila persone a fare un tifo d’inferno, Sonetti aveva capito che sarebbe stato meglio accontentarsi del pareggio. Del resto, poteva fare affidamento su una difesa solida e un portiere in stato di grazia. Il già citato Garella decise che la sua porta sarebbe rimasta inviolata; com’era suo costume, parò ccu tutte le parti del corpo a sua disposizione: mani, petto, stinco, coscia, piede, gomiti, spalla.
Fino a quel momento fatidico, il 55° minuto, 10° del secondo tempo, quando la difesa dei friulani sembrò cedere in maniera definitiva: il destino parve compiersi grazie a Claudio Lombardo, terzino sinistro dei lupi. Lombardo decise di accentrarsi e dal limite dell’area di rigore lasciò partire un sinistro potente: Garella si lanciò alla sua destra, con l’espressione di chi era un po’ seccato da tutto quel lavoro in quel pomeriggio i giugno in cui anche le inferriate dello stadio parevano fondersi dal caldo.
Garella era sicuro di arrivarci; invece, il tiro di Lombardo era troppo violento, troppo veloce. Ma anche troppo angolato. Colpì il palo e tutti sentirono “stamp!”, così nitido che alcuni pensarono che la porta sarebbe crollata sul portierone dei friulani. Ma forse era un’allucinazione collettiva, del resto non credo di essere stato l’unico ad aver mangiato la pasta al forno un’ora prima di recarmi allo stadio.
C’erano ancora 35 minuti da giocare, ma era ormai chiaro a tutti che la partita si sarebbe conclusa 0 a 0. E così fu.
E il palo di Lombardo rimase lì, fermo come tutti i pali e stampato nella nostra memoria storica, a ricordarci che le vittorie sono belle, ma le vittorie mancate si scolpiscono da sole nella corteccia cerebrale senza dover compiere lo sforzo di richiamarle. Cume una madeleine di Proust uscita male, ti ricordi il rumore del pallone sul palo, la puzza di sudore (tua e di tutta la tribuna B), la lista delle maledizioni inviate al povero Garella.
E cominci a pensare a tutti i metaforici pali che hai colpito nella vita, tutti i sentieri che invece di biforcarsi borgesianamente talvolta ti conducono davanti ad una porta chiusa e tu resti con la chiave sbagliata in mano. Alla fine ti chiedi se in fondo non sia stato meglio così, perchè se certe cose fossero andate diversamente non saresti arrivato dove sei ora. Perchè la vita ha poche certezze; e una di queste è quel maledetto palo che ancora trema.
"dunami ̶f̶u̶r̶t̶u̶n̶a̶ u cul* i Guarascio e jettami a mare" (cit. mia nonna)