“Cosenza, Inferno, andata e ritorno” per Salvatore.
-di Michele Santagata- Venerdì 6 Dicembre 2013, ore 19.30. Siamo davanti al grande cancello che separa il mondo dei vivi da quello dei morti che camminano : OPG di Barcellona pozzo di Gotto. Bussiamo. Qualche secondo e il cancello inizia a scorrere. Entriamo. Davanti a noi una visione che cozza con le aspettative: un bel giardino curato con tanti alberi. Non si direbbe proprio di essere entrati all’inferno. Secondo cancello. Siamo dentro: ufficio matricola. Il personale di custodia ci accoglie. Presentazioni e controllo dei documenti. Moduli da compilare, e tasche da svuotare. Ci informano che il direttore sta per arrivare. Nell’attesa solo frasi di circostanza. Arriva il comandante del personale della polizia penitenziaria. Si accerta che le autorizzazioni siano in regola, e dispone il “colloquio” con il detenuto Salvatore Iaccino. Le guardie ci scortano fin dentro una saletta destinata ai colloqui tra detenuti ed avvocati. Ci sediamo e restiamo in attesa. Qualche minuto, e a rompere il silenzio surreale che regna all’interno della struttura, è il rumore inconfondibile di chiavistelli che aprono e chiudono cancelli in ferro. Mi affaccio e vedo Salvatore fermo sull’uscio dell’ultimo cancello, esita, nonostante gli inviti dell’ agente penitenziario a seguirlo. Braccia conserte e posizione stabile, sembra quasi piantato a terra. Non si muove. Non ha capito il motivo di quella chiamata “fuori orario” in matricola. Chi conosce il carcere sa che essere chiamati fuori dagli orari stabili, spesso non è foriero di buone notizie. Capisco, e rompo gli indugi. Mi affaccio, e lo chiamo: salvatò simu nua. La reazione è istantanea. Come se avessi pronunciato una formula magica. Non mi vede ma ha capito. Inizia a volare. Pochi secondi, ultimo chiavistello, ed è lì con noi. Un abbraccio caloroso, di quelli che solo lui sa fare, scioglie la tensione. Ed è quasi sorriso. E’ sorpreso, felice, e continua ad abbracciarci. La saletta è quella tipica di ogni carcere, qualche sedia ed un tavolo. Ci sediamo. Ancora qualche secondo di silenzio, quasi come a “gustarsi” questo momento. Il carcerato conosce bene il valore di questi momenti. Tutto ciò che spezza la monotonia, del vivere recluso, è qualcosa di “straordinario” che va vissuto fino in fondo. L’emozione lascia spazio alle parole. E parte: “in questo posto sono tutti matti. Ho capito che ho sbagliato, ed ho deciso di curami, ma perfavore portatemi via da qui”. Queste le sue prime parole. Oltre al suo classico rituale : fumamu. Tiriamo fuori le sigarette, che gentilmente il personale di polizia ci ha lasciato portare. Stranamente non ne fumerà che una. E’ lucido. Ammupiato, sedato, per certi versi spento, ma lucido. Consapevole della sua realtà. Chiediamo subito, se sta bene, se ha subito violenze, se lo trattano bene. E lui ci rassicura. Il personale di polizia, dice, si limita solo a fornirgli la terapia. Fin quando “collabori”, non ci sono problemi. E’ stranito, positivamente, dalle tante cartoline che gli sono giunte. Tesse le lodi della città: Cosenza è la mia città, ed io ci vuagliu beni. Ci racconta come trascorre le sue giornate. Scrive, legge, e limita i rapporti con gli altri detenuti all’essenziale. E’ in cella con altre tre persone. Ma non fa altro che ripetere che qui sono tutti matti. Ci chiede di molti. Manda saluti a tutti. C’è anche spazio per qualche sorriso. Per qualche ricordo. Ci guarda incredulo. Ripercorre, la sua vita, soffermandosi su ciò che lo ha portato lì dentro. Comprende il significato dei suoi errori, sottolineando la sproporzionalità della “pena”. E’ disposto ad affrontare un percorso curativo, diverso da questo, in fondo, dice, non ho ammazzato nessuno. Non ci sta a passare per stalker, non era sua intenzione creare problemi a quella ragazza. Chiede scusa, ma sa che è troppo tardi. Chi lo conosce, sa che le sue parole sono vere. Profonde. Fa ammenda. E non si sottrae alle sue responsabilità. Come sempre. Paga in prima persona. Vorrebbe poter chiedere scusa, ma non sa come fare da quel luogo. Arriva il direttore. Si siede con noi ed iniziamo a discutere. Ha compreso bene la portata del caso, e lo stesso si mostra meravigliato di questa soluzione. Pone la sua valutazione professionale (è uno psichiatra), escludendo categoricamente, che per questo ragazzo l’OPG, è la cura migliore. Da anni, il direttore, si batte per chiudere questi luoghi. E’ una persona disponibile, affabile con Salvatore, prospetta una serie di soluzioni che se valutate attentamente possono “risolvere il caso”. Ci da speranza, da speranza a Salvatore. Sono quasi le 21,00. E’ l’ora della terapia, prima di andare a dormire. Ritorna il silenzio. E’ il momento dei saluti. E la tristezza ritorna prepotente. E lui a farci forza. Ha capito che non è solo. E questo è importante per lui. Chiede ancora scusa se ha offeso qualcuno, ma la rabbia certe volte proprio non riesce a controllarla, ma è solo esuberanza, mai violenza. Ci abbracciamo. Ci stringe fino a farci male. Un male che sa di amore. Dice: “Michè, ho imparato a contare fino 10. E da domani inizierò a contare i giorni che mi separano dal ritrovare il bene profondo che ho smarrito”. I cancelli si richiudono, e noi torniamo in silenzio nel mondo dei vivi.
http://www.newsdicalabria.com - 10/12/2013.